Di politica e di desiderio di felicità


Accanto alla politica come passione è sempre stato presente un altro modo di concepirla, venato di moralismo, grigio, rigido. Un modo che oggi sembra incoraggiato dai tempi che viviamo, caratterizzati dalla valorizzazione del calcolo, del cinismo e dell’indifferenza. 


Questo vecchio modo di intendere la politica è rassicurante, in un certo senso, perché si lega molto alla paura; la politica si presenta, in questo caso, come una pratica di difesa, un modo per dare voce alla propria diffidenza nei confronti dell’altro che potrebbe toglierti tutto: il lavoro, gli affetti e gli averi, persino l’identità. 

C'è spesso un “noi” legato a un patto di silenzio o di omertà. Territori, confini, recinti, incapacità di trasformare se stessi per trasformare creativamente il mondo. Le parole d’ordine sono la diffidenza, la paura, l’intolleranza per le differenze individuali e il desiderio di omologazione simbiotica come sinonimo di appartenenza. 

La politica si appiattisce nella dimensione di tecnica e quindi scivola non di rado nel calcolo, nella menzogna, nell’autogiustificazionismo. I cittadini si sentono allora considerati solo per la conta numerica: importano i voti, ma non le idee che riempiono la testa dei votanti e le loro convinzioni profonde. 

La politica dovrebbe essere l'arte di  volare alto sopra la terra per guardarla con occhio critico e perciò distante, e poi ridiscendere e abitarla con il cuore, con le viscere, con le lacrime, con la rabbia e con la gioia di godere della compagnia degli altri esseri umani e delle cose belle e buone del mondo. E poi volare e poi ridiscendere e ancora e ancora.

La crisi della politica va letta utilizzando anche concetti propri della sfera dell’intimo e dell’individuale. Come il desiderio di felicità che ci accomuna tutti.

La felicità può essere legata alla soddisfazione dei propri bisogni individuali, dai più nobili e alati ai più concreti, coniugandosi con l’egoismo. Oppure può essere intesa come conseguenza dello stare bene con se stessi e con gli altri: quei pochi che ci sono intimi e che amiamo di diverse specie di amore, ma anche la comunità della quale facciamo parte o, se vogliamo, l’umanità intera.


Si può fare politica per mestiere, per abitudine, per ambizione, per narcisismo e qualche volta, persino per espiazione. E si può invece farla per dare voce a un desiderio prepotente di trasformare il mondo, i rapporti degli esseri umani tra di loro e con la natura. 

Si può fare politica, insomma, per desiderio di felicità condivisa e per passione: perché la passione è contagiosa e coinvolgente e rappresenta la più efficace motivazione all’agire creativo. 

Vogliamo il pane, ma anche le rose.

J. W. Waterhouse, My Sweet Rose, 1908
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