domenica 6 maggio 2018

Essere comunità: cercare il futuro nelle radici

Salento, settembre 2017 -
Summer School di Arti performative (questa e le successive foto)
Ma può davvero esserci un'idea del futuro per chi non ha radici? E' una domanda retorica, si capisce subito, perché la mia risposta convinta è un no senza appellativi.


Persino il sogno di una felicità di là da venire o il desiderio di una qualche gioia immediata derivano dall'avere sperimentato l'una e le altre; cioè dal bisogno, che poi è anche una speranza, di attraversare di nuovo territori nei quali ci siamo sentiti appagati, completi, consolati e compresi da un abbraccio odoroso, familiare e caldo.


Tutto questo preambolo serve solo per accompagnare una scelta delle tantissime foto che ho scattato diversi mesi fa nel Salento profondo, nella  Summer School di Arti performative e Community care alla quale anche quest'anno non vorrei mancare. 


"Arti performative", in un primo momento, mi sono sembrati semplicemente i nostri passi nel ricalcare orme antiche tra i colori della terra profonda: i bruni, gli ocra, i rosso scuri e i marroni.



Perché, per chi non lo sapesse, la pedagogia come la intenderei io - e per fortuna molti altri anche prima di me, anche in tempi diversi - non abita affatto i test, gli algoritmi docimologici e le aule chiuse, le competenze e le tassonomie.



Quella pedagogia là, che piace a me, non si occupa di persone in età scolare soltanto, ma di tutti noi, da piccoli, da adulti o da anziani. Quella pedagogia là si occupa della nostra fragilità, del nostro continuare ad abitare la terra madre senza più conoscerla, del nostro gettare alle ortiche la storia fatta da altri come noi  e che non è l'elenco delle battaglie e dei trattati di pace.



La Storia siamo noi, la catena che ci unisce a quanti ci hanno preceduto nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, prima, e poi in quella per la conquista della dignità, del rispetto di sé, della consapevolezza. 

La piazza di Ortelle, punto di ritrovo, di partenza e di discussione collettiva.
La stessa in cui l'esperienza si è conclusa con uno spettacolo finale e un arrivederci
"Arti performative" significa anche che la piazza prende per qualche giorno il posto che di solito si riserva a un'aula, così che le persone qualsiasi si mescolino agli addetti ai lavori e dall'iniziale silenzio imbarazzato passino spontaneamente al racconto, alla memoria da salvare, da restituire a tutti come un bene prezioso e irrinunciabile. 

La piazza di Ortelle, la stessa, ma di notte.
"Arti performative" vuol dire che si studia e si parla, ci si confronta e si ragiona, ma si sta seduti o in piedi o accovacciati come si vuole, e ci si sposta per un caffè, per una sigaretta, e si rientra nel cerchio informale senza che nessuno ci trovi da ridire.  



A un certo punto ci sono soltanto le idee che hanno voglia di mescolarsi e di passare dall'uno all'altro e così anche i ruoli dell'insegnare e dell'apprendere diventano difficilmente scindibili. Le idee, da proprietarie, finiscono per essere qualcosa di condiviso.

Questa non l'ho scattata io, dato che sono ripresa tra gli altri

La piazza, il centro della piccola comunità, è il luogo di ritrovo delle giornate della Summer School come lo era, in altri tempi, per le persone che a quella stessa comunità appartenevano.


Quando il dentro e il fuori della casa avevano una continuità fatta di ritmi quotidiani, del chiudere e aprire le porte e le finestre o dello scostare le tende o del sogguardare nella loro trasparenza non c'erano confini definiti. 



Non è possibile, né, certamente, desiderabile, ricreare il tempo perduto di quella sicurezza identitaria.



Una sicurezza che del resto era data dal sempre uguale, dalle giornate sovrapponibili alle precedenti, dal ripercorrere le orme dei propri genitori e avi di generazione in generazione, senza scelta.

L'orologio, nella piazza di Ortelle, scandisce anche le nostre giornate.
E' una presenza acustica che non è possibile ignorare.

La sicurezza, insomma, era declinata insieme a una sorta di stato di prigionia rispetto al destino. 

Si può provare, con lo sguardo dell'oggi, a riscattare il prezzo di quella sicurezza identitaria perduta, mantenendone viva la memoria e la consapevolezza che ne discende ed è, questo, proprio uno degli obiettivi della Summer School. 

Rettorato di Lecce 

La rassegnazione di quella prigionia millenaria sembra ancora trasudare dalle antiche pietre rese roventi dal sole.



Rassegnazione rispetto, per esempio, alla povertà estrema, alla lotta con la terra riarsa per convincerla a elargire qualche dono.



Rassegnazione rispetto alla realtà secolare, in parte intrecciata con miti e leggende, del frantoio ipogeo.



L'olio del Salento, frutto dei maestosi ulivi che ne caratterizzano il paesaggio e sua maggiore ricchezza, nonché parte importante dell'alimentazione degli abitanti e considerato in tutta Europa il migliore per le lampade, era reso pregiato dall'essere prodotto in speciali locali sotterranei scavati nella roccia. 


La foto, scattata a Lecce, non ha niente a che vedere con il frantoio ipogeo se non per contrasto.
Questi inferi di fatica permettevano una migliore conservazione dell'olio, favorivano, attraverso il calore costante, la lavorazione delle olive e rendevano possibile, grazie alla natura carsica del sottosuolo, l'utilizzazione di cave naturali per depositare o per smaltire i rifiuti.



Insomma, oltre a proteggere da guardi indiscreti e da furti l'attività economica - l'azienda, diremmo oggi - queste strutture permettevano un notevole risparmio perché non c'era bisogno di altro se non della mano d'opera.



I frantoi ipogei del Salento costituivano una vera e propria rete - erano all'incirca almeno 80 - e in ognuno di essi convivevano, da fine ottobre a maggio, persone e animali, ma anche, secondo le credenze popolari, presenze magiche e ibride, umane e bestiali: dei folletti dispettosi chiamati "uri".


Ingresso del frantoio ipogeo di Melpignano. La porta si chiudeva per mesi alle spalle di chi scendeva sotto, a trasformare le olive nel prezioso olio del Salento.

Nel frantoio ipogeo uomini e ragazzini entravano alla fine dell'estate per uscirne solo a primavera fatta e rivedere le donne: le madri, le compagne, le figlie. Solo quelli che abitavano molto vicino al frantoio potevano tornare all'aria aperta nelle feste importanti.

Ancora il frantoio ipogeo di Melpignano.
A una data stabilita entravano giù, sotto, nelle viscere umide della terra, scendendo per una scala di pietra corrosa dai muschi. Con loro scendevano gli animali con cui avrebbero condiviso per molti mesi, senza una tregua, lo spazio angusto e scuro di quegli antri.


La macina per frangere le olive. Difficile fotografare, sottoterra..

La fatica della macina che ruotando avrebbe franto giorno dopo giorno le olive era affidata  a un mulo che veniva prima bendato. Piccole stalle e camere di pietra per dormire o per mangiare erano promiscue e non entrava luce diretta.

Palazzo nobiliare di Melpignano, a cui era annesso il frantoio ipogeo.
 A regnare, qui, è la luce
Sopra il frantoio o nei pressi c'era la casa padronale, bianca e oro come i colori della terra salentina, accogliente e in abbagliante contrasto con la cupezza e angustia proprie dei luoghi della fatica.


Considerando la luce e lo scuro così intrecciati e dipendenti l'una dall'altro si viene invasi da un senso di amarezza e inquietudine rispetto all'insensata crudeltà umana, trasversale alle epoche storiche.

Il dentro luminoso del Palazzo di Melpignano visto dall'andito scuro
Il prezzo della bellezza, destinata ad alcuni pochi, è pagato da sempre con il sacrificio dei più, cioè di masse anonime e invisibili di persone usate come macchine e sfruttate fino al limite massimo possibile.


I suoni, la musica, hanno sempre accompagnato la fatica umana per alleviarla, ma anche ogni emozione intensa: la paura, la perdita, la speranza d'amore, il desiderio infelice o soddisfatto.

Ortelle - Summer School 2017
Ecco perché fa parte del gioco di questa sperimentazione pedagogica mischiare i linguaggi e tradurli l'uno nell'altro riducendo
 la parola, alla fine, solo a un mezzo: il più economico e chiaro, forse, ma non sempre il più importante tra quelli di cui gli esseri umani sono dotati per esprimersi e per comunicare.




Non ci sono lezioni tradizionali, in questa Summer School, né le ancora più tradizionali relazioni, tipiche dei convegni accademici.


Ortelle 2017
Foto non scattata da me, dato che sono ripresa tra gli altri.

Nella piccola comunità, che così si crea, il legame tra persone con ruoli diversi rispetto alla ricerca e allo studio è dato dal desiderio di esplorare insieme il territorio e di interrogarsi non solo sulle sue tradizioni, ma soprattutto su quell'immateriale e inafferrabile coacervo di odori, immagini, sapori, suoni e rumori che costituisce trama e ordito delle nostre identità. 



"Arti performative", infatti, significa anche arti del trasformare: cioè del cambiare forma,  colori e odori, a un insieme di elementi e ottenere, per esempio, un buon cibo; oppure un manufatto, o una fioritura strana e inusitata.




Tra questi prodotti rientra anche l'impalpabile sonorità che chiamiamo musica e che è fatta della congiunzione di opposti: del suono e del silenzio, dell'alto e del basso, del lungo e del breve.

Università di Lecce - Rettorato
Tra gli opposti ci sono anche il melodico che ci spinge a girare, girare come in un gioco bambino, e il ritmico che ci fa battere i piedi e le mani e muovere la testa all'unisono con altri.





Può succedere, allora, che i confini si allentino e il corpo che era di qualcuno ben individuato e aveva un nome si faccia invece parte di un solo grande organismo vivente.



Un organismo fatto di mille braccia e mille gambe, occhiuto, pieno di voci che risuonano, ornato di capelli e di ciglia, carezzato dal vento, scaldato dal sole e poi avvolto nell'ampio ampio mantello scuro della notte.

Graffiti di carcerati - Melpignano
A quell'organismo plurimo è allora possibile ascoltare, nel silenzio, il rumore dei tanti cuori che gli battono in petto o quello, impercettibile, delle vene che pulsano la vita.




"Arti performative" significa, poi, mettere in collegamento il corpo e la testa, il pensare e il fare, il costruire e il contemplare per scoprire che quest'ultima esperienza, se ci si applica con convinzione, non è affatto semplice o scontata.

Rettorato di Lecce
Imparare a contemplare è forse l'apprendimento più complesso, che implica l'accettazione del limite individuale e dell'imperfezione del singolo per comprendere che solo nella relazione con gli altri si possono superare.




Si tratta, a volte, anche soltanto di qualche attimo fugace nel quale si può rompere la barriera tra il passato e il futuro, vincere il tempo e, persino, rendere in qualche modo giustizia alle vittime della Storia.

Piazza di Ortelle. Piazza: comunità.











Finale del nostro spettacolo - Summer School 2017