Sono
stata in vacanza proprio ad Avola quest'estate, ospite di un amico di mia sorella che
conosco da non so più quanti anni e che ha scelto a un certo punto di andare a
vivere lì, pur non avendo alcun legame precedente con il luogo. Insegna in
quella scuola e ce l’ha fatta vedere, dal di fuori.
Ho conosciuto alcuni suoi
colleghi e il suo segretario, che ci ha invitato a cena a casa sua. Abbiamo
parlato dei ragazzi che quella scuola la frequentano, gli stessi che la sera
incrociavamo nelle passeggiate lungomare o vedevamo sfrecciare sui loro
motorini rumorosi.
Abbiamo parlato delle difficoltà, delle frustrazioni e delle
gratificazioni, dell’incuria e della cura e di tutte le contraddizioni della
scuola pubblica. Sono convinta che il male nasca da due aspetti attualissimi.
Il primo è legato al considerare i figli come proprietà da difendere, non come
persone da rispettare e amare. Non è amore quella difesa aprioristica dei loro comportamenti che li
educa a considerare la famiglia come luogo di omertà e complicità a qualsiasi
costo e il mondo come l’insieme dei nemici.
Non è amore né rispetto neanche nei loro confronti quel non spronarli a divenire parte di una
comunità più vasta delle mura di casa, rispettandone le regole condivise.
Quelle botte al professore non hanno niente a che vedere con l’affetto per il figlio, solo
con il desiderio di rivincita e con il disprezzo, in fondo, per la scuola. Ed è
questo il secondo motivo che leggo nella vicenda.
Ormai c’è un sentire diffuso
di sentimenti di odio e di desideri di rivalsa nei confronti di chi svolge
una professione socialmente svilita e messa alla gogna come quella
dell’insegnare. Non importa che lo faccia con dedizione o meno, non c’è
distinzione. L’idea, che riguarda anche chi insegna all’università e dunque
anche la mia categoria di docenti, è che quando si ha a che fare con qualcosa
di immateriale come la cultura, la bellezza, cose che insomma non sono prodotti
grezzamente utili in senso stretto, si sia del parassiti sociali, dei mangiapane a ufo, dei
nullafacenti incapaci persino di cambiare una lampadina fulminata.
E’ un
disprezzo che riguarda non solo un ruolo, quello docente, ma la cultura più in
generale. Provo angoscia, paura, una specie di nausea nel rileggere dichiarazioni e notizie sulla vicenda di Avola. Ecco un tema che
dovrebbe essere al centro delle discussioni elettorali di questi giorni. Chi
fine ha fatto quel rispetto per la dignità e il valore della cultura, cioè per quell’esperienza
vasta, profonda, complessa, talvolta anche faticosa, che fa mettere le ali al pensiero e ai sentimenti persino quando si è
rinchiusi in galera e ci è negata per sempre la libertà di vivere nel mondo? Le botte ai professori non sono solo i pugni e i calci dei due genitori di Avola. Sono anche di altro tipo, magari socialmente incoraggiate; e fanno altrettanto male.
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