domenica 2 aprile 2017

Universi di silenzio e traduzioni possibili (nella giornata sull'autismo).

Questa e le successive foto di bambini sono del grande Erwitt Elliott
Quanti sono gli universi di silenzio? Di silenzio di parole, intendo, oppure nei quali le parole sembrano devitalizzate, usate come sono in modo bizzarro e idiosincratico e perciò inefficaci dal punto di vista comunicativo.


Il termine “infanzia”, tanto per cominciare, fa riferimento etimologicamente all’essere privi di parola.


E poi ci sono tutti gli animali di specie diversa dalla nostra, che emettono suoni, ma non li articolano per formare parole e con le parole frasi e con le farsi discorsi. Eppure noi comprendiamo le sfumature di sentimenti, i desideri e i timori di cani, gatti e altri animali che vivono con noi, così come possiamo comprendere il bambino piccolo nella sua culla che emette solo gorgoglii, ciangottii o vagiti.



Ci sono, ancora, le persone anziane affette da patologie neurologiche degenerative e anche loro perdono la capacità di parlare, in un impressionante viaggio in cui percorrono a ritroso le tappe dell’apprendimento linguistico finché arrivano a balbettare qualche sillaba e poi solo suoni isolati, talvolta prolungati in lamenti.



Ma oggi è la giornata mondiale dedicata alle persone che soffrono di disturbi dello spettro autistico, molte delle quali non accedono alla parola e sono mutaciche o la usano, ma in maniera del tutto soggettiva e dunque inefficace.


Ci sono giornate dedicate a mille cose diverse e ne siamo inflazionati. Però questa è un’occasione particolare per sensibilizzare contro gli stereotipi e i luoghi comuni, dovuti a incolpevole ignoranza, su una patologia che si articola in diverse tipologie differenti per storia individuale e per prognosi ed è importante cercare di parlarne.



Lo faccio con un pensiero soltanto: nel mentre è giusto mettere in atto percorsi di cura, occorre anche chiedersi come fare a comunicare quando le parole risultano inefficaci o secondarie. Quando di esse viene raccolto prevalentemente il significante, cioè le caratteristiche formali e la musicalità e se suonano cacofoniche o eufoniche, ma non il significato a cui sono convenzionalmente legate.


Credo che si debba partire dall’idea che nella relazione con chi non ha o non ha ancora parole, sia importante prestargli le proprie. Non nel senso paternalistico che li renderebbe ancor più dipendenti da chi le possiede, ma proprio come farebbe un traduttore che deve trasporre una poesia - non un saggio, non un romanzo - da una lingua a un’altra.



E’ necessario essere capaci di ascolto attivo per decifrare un codice tanto più complesso delle stringhe di suoni del nostro linguaggio e spogliarci della sicurezza abitudinaria che ci generano i nostri alfabeti verbali. E’ importante, soprattutto, non attribuire all’altro ciò che riguarda noi soltanto. Se non riusciamo a comprendere il suo linguaggio e se lui non sa o non sa ancora usare il nostro, non significa che dentro di sé non alberghi sentimenti, emozioni, affetti di ogni genere; sta a noi cercare di decifrarli per restituirne anche a lui il significato. 

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