giovedì 14 aprile 2016

L'autismo e la paura egoista

Questa è di Elliott Erwitt, ma le successive foto sono tutte del grande Robert Doisneau, di cui ricorre proprio oggi l'anniversario della nascita
Leggendo la notizia del ragazzino autistico escluso di fatto dalla gita scolastica - se volutamente o no deve essere ancora stabilito, pare - ho sentito come un pugno allo stomaco. (Sulla vicenda si può leggere qui). E' accaduto qualcosa di simile anche a Isernia: un ragazzino autistico ha trovato ad accoglierlo nella classe vuota solo la sua insegnante di sostegno. Si può leggere la notizia qui.



Non voglio dare giudizi sulla vicenda della scuola di Livorno perché ancora ci sono versioni contrastanti su quel che è successo nello specifico e io non sono nessuno per farlo. Però, dato che da diversi anni sono la responsabile della formazione degli insegnanti di sostegno nella mia università, so bene che il tema ragazzo autistico-gita scolastica è uno dei più scottanti. Lo so da tanti racconti dei miei allievi in formazione. La motivazione non detta - ripeto, parlo in generale, e non sulla vicenda specifica di Livorno - è che il l'alunno autistico rovinerebbe il divertimento, romperebbe il clima di festa, creerebbe preoccupazione e angoscia.



Magari si metterebbe a urlare e sfarfallare le mani saltando eccitato, oppure sfuggirebbe alla sorveglianza, si metterebbe a correre, ci sarebbe da inseguirlo... La motivazione più nobile, invece, è che aggrappandosi alle abitudini e alla ripetizione dei ritmi quotidiani per trovarvi sicurezza, un ragazzo autistico entrerebbe in crisi di fronte alla novità e all'inaspettato, in un ambiente sconosciuto e magari rumoroso e troppo pieno di stimoli e potrebbe stressarsi ricavandone più danno che guadagno anche in termini di felicità.



Io non sono d'accordo neanche con la motivazione nobile, anche se penso che caso per caso, gita per gita, si debba valutare il pro e il contro. Su questo aspetto, però, dovrei argomentare con più parole di quante siano opportune per un post. Per lo stesso motivo non entro, qui, nel problema degli insegnanti, bistrattati e caricati di responsabilità pesanti, non ultimo proprio per le gite, senza un riconoscimento adeguato anche, ma non solo, di tipo economico.



Ritorno, allora, alla questione più semplice del pugno allo stomaco. Forse  l'ho provato perché molto di quel che sono ora, la mia sensibilità, i miei interessi di studio, i miei sentimenti e il mio desiderio di rompere le barriere che dividono gli esseri umani, è legato anche all'essermi occupata di soggetti affetti da questa sindrome. Prima dell'attuale professione, infatti, ho lavorato in una struttura preposta alla diagnosi e alle indicazioni di cura delle patologie neuro-psichiatriche dell'età evolutiva.



Andavano e venivano, in day hospital o per soggiorni brevi, moltissimi bambini e ragazzi  e diversi di loro erano affetti da una qualche forma di patologia dello spettro autistico. Di  questi ultimi, in quasi 15 anni, ne ho conosciuti davvero tanti. Di alcuni rammento poco o niente; di altri, invece, riesco ancora a ricordare il volto, le consuetudini, le emozioni che ho provato nell'avvicinarli.



Il mio primo libro, nel 1996, riguardava proprio l'autismo. Era la rielaborazione della tesi di laurea, ma rispetto a quel lavoro accademico conteneva qualcosa in meno (avevo sfrondato il corredo di note, che sarebbe risultato pesante) e soprattutto qualcosa in più: alcuni ricordi delle interazioni vere, intessute di sentimenti contrastanti, con questi soggetti.



Contrastanti perché proviamo una sorta di fascino e di timore insieme di fronte alla sfida di una comunicazione così difficile, ma anche, se siamo disponibili all'introspezione, tenerezza e persino - so che può sembrare strano - una particolare empatia. La proviamo perché tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sperimentato cosa significa non essere in grado di comunicare adeguatamente; e abbiamo allora attraversato il dolore di quel fraintendersi reciproco, in una relazione che ci tocca, che genera il sentimento di insensatezza delle parole e dei gesti codificati  dei quali ci fidavamo e che all'improvviso ci appaiono inservibili.



Di fronte a un bambino o a un ragazzino autistico, che non sempre risponde al richiamo della voce, che non ricambia lo sguardo diretto, ma lo fugge, che sembra, magari, non desiderare di essere abbracciato, che non parla, anche se il suo apparato bucco-fonatorio è perfetto, che non gioca con gli altri bambini, ci si può sentire inadeguati, impotenti, smarriti.



La sua diversità può farci paura perché sembra togliere senso a ciò in cui di solito lo cerchiamo: le abitudini, le convenzioni, fai ciao con la manina, rispondi al signore, dì grazie, recita la poesia di Natale...Poi diventa grande e se prima gli bastava allontanarsi dagli altri bambini e cercare un angolo di stanza in cui rifugiarsi nelle proprie stereotipie, in quel dondolare del tronco avanti e indietro, come in un rituale di preghiera, in quello sfarfallare le mani, in quel passo sulle punte che assomiglia piuttosto a una corsa, crescendo si difende come può per allontanare chi troppo insistentemente lo sollecita, lo incalza, rompe il silenzio amico che lascia che si concentri su se stesso per orientarsi.



Rispondi, lo sai come ti chiami? Lo sai chi sono io? Mi riconosci? Perché non vuoi giocare con gli altri bambini? Ecco che si preme le mani alle orecchie, come a dire nel modo più concreto possibile che vuole essere lasciato in pace; ecco che emette dei mugolii, dei suoni inarticolati, gravi, che arrivano dalle viscere e poi urla perché proprio non vogliono capire che bisogna avvicinarsi piano, a lui, essere indiretti, non costrittivi, non avere ansia di una risposta che ha bisogno di tempi lenti per giungere...



La reazione più immediata, di fronte a lui, è spesso la fuga codarda perché, si sa, diventando grande e difendendosi come può da tutte quelle intrusioni può essere anche aggressivo, farsi male e fare male agli altri. Certo, può fare male ai bambini, a quelli venuti bene, a quelli che giocano felici e fanno amicizia e godono della reciproca complicità di fronte all'adulto e loro, innocenti, cosa c'entrano? Hanno pur diritto a non vedere le ombre e a vivere nel guscio protettivo di un mondo tutto rose e fiori  e ci dispiace per lui, ma loro non ne hanno colpa, poverini!



Eppure esiste una strada per imparare  a comunicare anche con bambini affetti da forme gravi di autismo, figuriamoci con quelli che hanno diagnosi meno severe perché un poco parlano, perché hanno momenti di disponibilità affettiva, perché mostrano isole buone di interesse, magari per linguaggi diversi da quello verbale. Per esempio per la musica.



Per un genitore è difficile, con un figlio così, andare al ristorante, passeggiare in mezzo alla gente dove gli altri esibiscono i loro prodotti perfetti e tutti gli occhi sono puntati su quel figlio che teme di non saper proteggere; ecco che così, spesso, finisce per rinunciare a una normale socialità.

Franco, il padre, e Andrea, il figlio diciottenne a cui era stato diagnosticato l'autismo all'età di tre anni. "Se ti abbraccio non aver paura" , di Fulvio Ervas, racconta il loro lungo viaggio tra America latina e Stati Uniti.

Ho finito di leggere un libro che mi è stato regalato tempo fa e che avevo tralasciato forse perché sapevo che mi avrebbe catapultato in vecchie storie che mi riguardano e nella mia altra vita professionale prima di quella attuale. Racconta di una storia vera, di un viaggio non solo fisico, ma psichico, quello di un padre e di suo figlio autistico; si tratta di questo libro e c'è anche un video che lo racconta e che si apre in automatico (non è una pubblicità) cliccando il link. Il titolo ci riassume già tutto ed è "Se ti abbraccio non aver paura".



La Harley-Davidson del viaggio
Nel risvolto di copertina c'è una citazione tratta dal libro: "Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima. A volte molto prima. Sono bastate poche parole 'Suo figlio probabilmente è autistico' ".



Il termine "autistico" fa paura e non bisognerebbe lasciare mai solo chi si trova ad ascoltare parole come queste, che suonano come una sentenza durissima da accettare. Eppure quella leggerezza - parlo di nuovo della vicenda scolastica - se si è trattato di una disattenzione o di una dimenticanza, o quella colpa, se lasciarlo a casa e fargli trovare la classe vuota è stata una scelta, sono la risposta a questa paura che parla di noi e del nostro egoismo.



Perché, certo, ci sono i diritti dei bambini che non hanno problemi, e che caspita! E quelli dei loro genitori e insomma, cosa si pretende? Portarlo in gita e la responsabilità e tutto. Un pugno allo stomaco. Stiamo costruendo un nuovo mondo che si regge sull'egoismo soltanto; incapaci di vedere nell'altro un volto e un nome, ma solo un possibile ostacolo rispetto alla nostra tranquillità appagata.



Quelli che sciaguratamente invocano le telecamere in classe cosa dicono, ora, di fronte a queste tematiche? Non ci sono telecamere che possano salvarci da quello che stiamo costruendo: un mondo di egoisti competitivi che non sono capaci di donare niente. E non parlo di denaro, parlo del tempo o della felicità a tutto tondo legata a una condizione di privilegio come lo è quella della salute psicofisica.



Forse, l'esame di coscienza, dovremmo farcelo tutti, ognuno abituato sempre più a vedere solo il suo ragionevolissimo punto di vista: quello, spesso e volentieri, di una persona egoista. 


venerdì 1 aprile 2016

I figli di Don Abbondio


La macchinazione, il film di David Grieco sulla morte di Pasolini uscito in questi giorni, l’ho visto in una sera in cui cercavo di sopire la tristezza per una notizia dolorosa ricevuta da poche ore. Sono andata in compagnia di due persone che si sono occupate a lungo di questa vicenda e hanno scritto un libro di cui si può sapere tutto qui, sul sito della casa editrice. Una dei due è mia amica da molto tempo e spesso abbiamo parlato di Pasolini. Qui c’è il suo commento sul film. 



E' un film di denuncia, ma sarebbe riduttivo circoscriverlo a questa sola categoria. Molti sostengono che non ci sono prove sufficienti per condividere la versione raccontata nel film, ma io credo che la domanda giusta da porci sia un'altra. Dovremmo chiederci, cioè, non tanto se il film dimostra in maniera esaustiva la veridicità di tale versione, ma se, proponendo una verità plausibile, riesce o meno a infrangere la credula e passiva acriticità con la quale è stata accolta una tesi banale e ancor meno dimostrata come quella del fattaccio di cronaca tra omosessuali.



Il film non è un documentario e la verità che ci propone, al di là di quella sulla morte di Pasolini, è altrettanto inquietante. Riguarda la deriva politica e sociale del nostro paese filtrata attraverso la vicenda di un uomo tanto scomodo quanto consapevole e perciò solo; solo e spaventato di fronte all'abisso del potere occulto e delle sue trame di morte, delle stragi senza colpevoli, delle bombe fasciste sui treni, del cinismo legato al falso mito del progresso. 
Una piccola citazione illuminante, tratta dal film, ne sintetizza efficacemente il senso più profondo: "Noi siamo italiani, siamo tutti figli di Don Abbondio, siamo vigliacchi, anzi, no, peggio, siamo opportunisti...". Come nella drammaturgia tradizionale e antica, infatti, da qualche decennio il segno tragico del percorso italiano sembra affidato, prima ancora e oltre che ai personaggi, al coro. E' il coro degli ignavi, di quelli imbevuti di pregiudizi trasversali alle classi, ai differenti orientamenti sessuali, religiosi e politici.



Un coro di complici che si affianca a quello degli assassini di Pasolini creando un paradossale e caleidoscopico reticolo di malavitosi e ricchi industriali, di politici e di sciupafemmine qualsiasi, di perdigiorno e di pigri giocatori di biliardo nei bar della periferia più degradata. Il film ci racconta passo passo la coralità della colpa: non si è trattato di un singolo assassino, del disgraziato ragazzo di borgata, amante, amico, semi-figlio di Pasolini e chissà se psicologicamente dipendente da lui, che nel film vediamo aggredire gioiosamente piatti di spaghetti e altre prelibatezze della cucina popolare.



Li vediamo più di una volta seduti di fronte e mentre Pasolini  spesso non mangia, ma osserva compiaciuto la gioia semplice dell’appetito dell'altro, Pino arrotola gli spaghetti alla sua forchetta ben piantata perpendicolare al piatto, appoggiando i gomiti su tovaglie a quadri o sul legno di nudi tavoli da osteria e alzando gli occhi compiaciuto su quel signore dal volto segnato; su quel regista famoso che paga le sue piccole soddisfazioni di ragazzo senza mezzi e senza istruzione e che potrebbe anche farlo recitare in un suo film rendendo ricco e famoso anche lui.



Siamo nell’estate che per Pasolini sarebbe stata l’ultima, quella del 1975, mentre sta montando "Salò o le 120 giornate di Sodoma". E' un film che non sono riuscita a guardare, perché pur avendo provato e riprovato ogni volta non ho potuto fare a meno di abbassare gli occhi e la prima mi sono persino dovuta tappare le orecchie. In questo stesso periodo Pasolini sta anche lavorando a Petrolio, un romanzo scritto in uno stile vicino a quello di un saggio; più di 500 pagine di appunti per un'opera di denuncia incompiuta e pubblicata solo molti anni dopo.
Petrolio è un “J’accuse” rivolto al potere politico nel suo intreccio mefitico con quello economico e malavitoso, nell'epoca in cui ha inizio il lento declino etico di questo nostro paese e nell’intreccio della corruzione pubblica con quella della vita privata.



La morte di Pasolini viene subito trattata come una specie di esito necessario della sua scelta di vita legata a un’omosessualità non censurata, ma esplicita; come un "se l’è cercata e non poteva finire che così”. Nessuno, all'epoca, si interroga sulla stranezza e sulle incongruenze del finale terribile di un film in cui quell'uomo è coinvolto, ma non come regista, quanto piuttosto come la marionetta mossa da fili invisibili insieme all’altra, a quella del colpevole costruito a tavolino e secondo un ben preciso e articolato copione.



Pasolini deve morire da "frocio" perché si possa dire che in fondo – ed è un’altra citazione tratta dal film – non era altro che quello. Nessuno, subito dopo, trova strano che si sia recato in quel posto isolato e assurdo, di notte, quando non avrebbe avuto alcun bisogno di nascondere una relazione simile a tante sue altre, in passato, e vissuta da mesi apertamente.
No, il film non è un documentario, anche se contiene la denuncia che di solito si affida a quel genere. Non mostra la circostanziata sequenza degli eventi, la concatenazione di indizi, le prove provate. Preferisce suggerire sottovoce, piuttosto che urlare.



Rovescia l’interpretazione di quella morte feroce a cui ci eravamo subito adattati e non lo fa tenendoci per mano attraverso i vari passaggi, di stanza in stanza o di corridoio in corridoio, ma avvolgendoci quasi in un’atmosfera onirica, fatta di piani temporali diversi e di continui slittamenti tra l’uno e l’altro. E' un po’ come avviene nelle giustapposizioni della rêverie aurorale, quando ancora non riusciamo ad aprire gli occhi e a tirarci su dal letto, ma ci raggiungono come da una lontananza infinita i rumori del giorno che avanza.



I continui cambi di scena e di dimensione temporale che caratterizzano il film sono efficaci proprio per mettere in evidenza come la verità abbia molti volti e nella morte atroce di quest'uomo scomodo, di verità ce ne siano almeno tre: quella del potere, cioè dei mandanti del suo assassinio e dei disgraziati autori materiali; quella dell’immaginario collettivo disponibile a omologare la sua morte in maniera acritica come necessaria conseguenza della sua vita; e infine la sua, quella della vittima consapevole di ciò che potrebbe accadere e che non vi si sottrae, pur avendo paura.




La paura di Pasolini si respira scena dopo scena. E’ la paura del predestinato. Si respira quando nel silenzio dei libri familiari scrive gli appunti di Petrolio. E si respira ancora più intensamente quando la madre gli ricorda quel suo fratello il cui fantasma, come sempre accade in questi casi, reclama giustizia per la propria morte giovane e innocente.



Lei si rannicchia accanto a lui, nel letto, e gli racconta che è venuto a trovarla in sogno Guido, quel figlio perduto come l’altro – Gesù – che era stata chiamata  a piangere ne “Il Vangelo secondo Matteo” intrecciando il piano della realtà e quello dell’altrettanto reale illusione del cinema.





E’ una paura paradossale la sua, che si coniuga con la negazione del pericolo, cioè dell’idea che una persona ormai famosa come lui possa essere così sola da morire intrappolata nella rete invisibile di pregiudizio e di disprezzo che l'avvolge come un sudario; mentre il petto si solleva ancora, ma piano, nel rantolo lento dell’agonia, quando il volto è ormai ridotto a una maschera di sangue e le palpebre tremano e vorrebbero schiudersi per una nuova alba, come si trattasse solo di una caduta, in uno di quei campi di calcio di periferia che aveva tanto amato.