venerdì 12 febbraio 2016

Ora non è il momento.



La strada è la solita, solo che a un certo punto devi deviare a sinistra invece che continuare a dritto verso il paese. Ancora venti minuti di curve e di precipizi che non devi guardare pena vertigini e finalmente arrivi nella città dei nonni materni e del tuo liceo, con le sue pietre color ocra e tutto che sembra cristallizzato quasi come nella favola della bella addormentata.



Costeggi dal basso le mura e scendi giù, dove un tempo c'era il manicomio e ora l'ospedale.


Oggi non ci vai, però. Sembra che le cose si mettano meglio e ci sono là altre persone, dunque ti concedi una pausa di evasione, di attività frivole, ma anche di un po' di lavoro arretrato, per fare finta che tutto sia normale.



Tra la correzione di una tesi e qualche pagina da finire di scrivere ci inserisci persino il taglio dei capelli perché si sa, una donna quando è un po' o molto in crisi lo fa. Il cambiamento è indice di altre possibili trasformazioni e allora vai dalla parrucchiera, ti lasci lavare e massaggiare i pensieri sotto il cuoio capelluto, ti fai fare il turbante con l'asciugamano, ti muovi tra altre simili che indossano la stessa vestaglia fornita al negozio, tra vapori olezzanti, unghie smaltate e riviste di gossippeccucinaemmoda. 



Tra un'azione e l'altra rispondi anche a una sterile polemica su facebook che se ci fossi stata di mezzo solo tu avresti lasciato perdere e leggi un po' di notizie. Ti piacerebbe approfondire la storia delle onde gravitazionali, ma ora più che l'entusiasmo non puoi metterci e quindi lo farai in un secondo momento, quando avrai anche la testa per  capire.


I vialetti li conosci, i giardini nascosti, gli alti pini svettanti, i muretti di mattoni, le panchine di legno, le scalinate strette  e ripide per salire in fretta e a piedi.



E ti accorgi che sui rami di alcuni alberi, qua e là, ci sono già i fiori. Ma non è questo il momento, no, di pensarci. Di pensare ai fiori rosa e bianchi.



L'odore lo conosci. E' quello delle minestrine in brodo, delle purée, delle mele cotte, ma senza vino né zucchero; te le danno così come ti aspetti che accada in simili posti, rudi e un po' sfatte.




Le scale le conosci per quante volte le hai salite e discese quando con a fianco la speranza e quando a braccetto con il dolore. Anche i corridoi li conosci, per quante volte li hai percorsi inseguendo qualche camice svolazzante così da guadagnare un po' di notizie, da aggrapparti a un filo di ottimismo o da trovare la rassegnazione che è così difficile da conquistare proprio quando servirebbe!



E allo stesso modo i pensieri li conosci, ogni volta i medesimi, e alcuni cerchi di cacciarli indietro subito perché ora no, non è davvero il momento e devi raccogliere le forze.



Dunque te lo ripeti come un mantra: devi essere razionale, riflessiva, non farti prendere dall'emozione, ma tenerla in dialogo con la ragionevolezza ponderata, non avere fretta e se non ci riesci, allora devi aggrapparti a un libro, alle parole crociate, a facebook sul telefonino, al mondo fuori o a quello dentro, ma non porti domande sul senso.



Ecco, questo soprattutto devi ricordare, perché ora non è davvero il momento. Poi esci e ti trovi ancora davanti i fiorellini bianchi e rosa che si affacciano in anticipo dai rami degli alberi a colorare la primavera e vorresti tanto portarli dentro, in quelle corsie e tra quei letti.


Ma ora non è il momento di pensare a questo, no, davvero, non è il momento. La città è alta e noi, quaggiù, siamo come adagiati ai suoi piedi, avvolti nel suo ventre, nascosti nelle sue radici. Ma non è il momento, ora, di pensarci.



venerdì 5 febbraio 2016

Di tramonti e di maestre che picchiano.

Ho sempre fatto foto in orizzontale, ora sto cominciando
a provare gusto per lo sguardo verticale. 
E' il tramonto di tutto? A volte mi pare che non si possa proprio non pensarlo. A volte, cioè, si ha l'impressione che quello a cui assistiamo sia il tramonto delle speranze, delle utopie, dei sogni, delle illusioni, delle fantasie e del desiderio di un modo diverso di relazionarci gli uni agli altri. Le notizie che si leggono lasciano senza fiato. Ci avvolgono in una spirale mefitica di paure, ci terrorizzano, ci tolgono la gioia di vivere, la curiosità verso i nostri simili e tanto più verso i dissimili per storia o per idee.

Questa e le altre, salvo diversa didascalia, sono foto di tramonti di questi giorni

E non fa differenza se si tratta di grandi eventi catastrofici, di brutte storie locali o di piccoli e insignificanti episodi della quotidianità. Ci si sente persi ogni volta. Si ha la percezione dell'aumento della criminalità e del pericolo; ma io credo che succeda perché è diminuito il senso di solidarietà. Se ti capita qualcosa per strada infatti, anche se ci sono testimoni, è molto difficile che ti vengano in aiuto. Probabilmente fuggiranno o forse si fermeranno un attimo, chissà, per fotografare la scena e affidarla alla rete.




Ho guardato il video girato in un nido della mia città. Ho considerato quei gesti nervosi, quel sollevare tenendo i bambini per un braccio, come fossero oggetti inerti, cose morte. E ho visto il tranquillo muoversi indaffarato degli altri adulti, indifferenti, solerti e cheti.




Nessuno si è accorto di nulla, nessuno ha protestato, nessuno le ha fermato la mano, nessuno l'ha aiutata, se stava male come presumo, a ritrovare il controllo di se stessa e il senso del limite, del rispetto dell'altro e della fragilità di quei bambini.




E' questo che spaventa. L'indifferenza, il pensare che non è affar nostro se non ciò che ci riguarda direttamente, che non bisogna impicciarsi e magari anche che da che mondo è mondo è sempre stato così. 

Un tramonto del 2011 - Marina di Vecchiano

Una persona che sceglie esseri più deboli per sfogare la propria rabbia, frustrazione e malessere di sicuro non sta bene. Possibile che nessuno se ne sia accorto? Che nessuno abbia provato a fermarla oppure ad aiutarla o ancora, se impotente, a denunciarla come hanno fatto finalmente quelli che ne hanno avuto il coraggio, ma che non erano i suoi colleghi diretti? 

Marina di Vecchiano - 2011

Ora si è scatenata la gogna, il "datela a me che ci penso io". Non è una soluzione, ma un'amplificazione del problema. Qualcuno, poi, propone di mettere telecamere ovunque o di costruire le scuole dei più piccoli con pareti di vetro. E' comprensibile, è umano pensarlo.
Io ricordo soltanto, però, che quando eravamo piccoli, più i genitori ci controllavano e più eravamo sollecitati a ingannarli. So che i genitori ai quali si obbedisce volentieri sono quelli che ci danno la loro fiducia. Così non credo che sorvegliare di più sia una soluzione del problema e che garantisca più di tanto. Bisognerebbe invece farci carico maggiormente, saper cogliere i segnali di malessere, prevenire il burnout di chi lavora con altri esseri umani e non con le cose ed è perciò più soggetto a stress e al rischio di comportamenti patologici e dissociali. 




Il burnout è una condizione patologica di stress legata al lavoro che colpisce spesso figure di cura o educative. Si caratterizza, in generale, per la comparsa di un bruciante e intenso senso di fallimento e inadeguatezza che porta insonnia, irritabilità, malesseri psicofisici di varia natura, ma anche demotivazione, disimpegno, indifferenza nei confronti delle persone in cura o in formazione, facili accessi di collera e una sorta di cinismo e di perdita della capacità di discernere se i propri comportamenti sono o meno consoni. 
Da ormai più di trenta anni si conoscono le specifiche caratteristiche della sindrome da burnout quando colpisce gli insegnanti. Rispetto ai sintomi trasversali alle diverse figure professionali di cura (psichiatri, infermieri, fisioterapisti, logopedisti...) il burnout degli insegnanti comprende anche una tipica perdita della capacità di controllo e di quella di staccare mentalmente con le problematiche lavorative.

Tramonto oltre il viale delle Piagge

Il pensiero vi si fissa e le dilata ed esse invadono la vita relazionale e psichica fino a soverchiare ogni altro interesse o preoccupazione e a determinare reazioni impulsive, cariche di emotività inarrestabile e spesso violente. Gli studi hanno anche mostrato come siano fattori predisponenti, oltre a quelli individuali, le classi troppo numerose, la scarsa gratificazione economica o in termini di comprensione e valorizzazione sociale, la conflittualità tra colleghi o con le famiglie degli alunni e anche il continuo mutare le regole e condizioni di lavoro attraverso un susseguirsi di riforme e controriforme, di regolamenti e obblighi burocratici che lievitano fino all'inverosimile. 

Tramonto sul fiume - Arles, agosto 2014

No, il rimedio non è l'intensificazione del controllo, ma la  capacità di responsabilizzarci, come paese e come singoli, cercando di non chiudere gli occhi di fronte al malessere profondo che può portare una persona a trasfigurare completamente il proprio modo di essere.  L'indifferenza e il cinismo, ma anche l'omertà e la deresponsabilizzazione stanno  invece diventando delle pericolose abitudini relazionali. 

La vecchia copertina a me cara.

Secondo Foucault la società pan-ottica del controllo e della trasparenza assoluta non può che generare essa stessa delinquenza. Per chi volesse approfondire: credo sia insuperato il bellissimo "Sorvegliare e punire".  Qui il link. No, non si risolve il problema con il controllo, ma con la responsabilità condivisa.

Il progetto del Panopticon di Bentham.