lunedì 26 ottobre 2015

Fragilità autunnali


Ieri sono andata a rilassarmi tra i colori caldi dell'autunno, in una zona diversa da quelle per me abituali.


Che rabbia, però, non poter camminare ancora in scioltezza come piace a me, ma scoprirsi a temere le storte, il terreno dove è scivoloso, l'insidia del breccino, le discese troppo ripide...Possibile che dopo sei mesi non abbia ancora recuperato del tutto la sicurezza del passo, che senta dolore, a seconda di come mi muovo, per un ossicino così piccolo come un metatarso?


Provo a riflettere con saggezza sul senso del limite, sulla necessità di attraversare e accettare l'imperfezione, sull'importanza di riconoscere la propria fragilità e apprezzarne l'aspetto di dolcezza. So tutto questo e lo so bene, credo; stamani è stato anche - un po' di striscio - argomento di lezione...


Però, un conto sono il ragionamento e la riflessione pacata, un altro è l'aspetto emozionale. Ieri, mentre il cervello mi comandava di andare, saltare, scendere, salire e il corpo non rispondeva con la celerità abituale ai comandi, per darmi un motivo di sosta ho scattato anche più foto di quanto non faccia di solito.


Certo, quel giallo dei filari di viti, quei piccioli delle foglie sottili e contorti e, tra le le foglie, quelle già trascolorate nel rosso e un po' accartocciate, hanno rappresentato una buona scusa per fermarmi.


Cercavo il silenzio del passo solitario, perché per me camminare significa da sempre scaricare la tensione, svuotare la testa e il cuore per aprire entrambi a qualcosa di nuovo.


A tratti quel silenzio amico era rotto, però, dai latrati dei cani eccitati per la caccia e dagli spari che mi parevano troppo vicini e mi generavano un senso insopportabile come di pericolo.


Sono abituata a situazioni come questa. Sono cresciuta in un piccolo paese dove tutti erano cacciatori. Però, anche allora, nella "naturalità" apparente di quell'attività comune e indiscussa, mi capitava sempre di immedesimarmi nell'animale braccato, di sentire il mio cuore battere forte insieme al suo e la testa martellarmi di paura e il respiro farsi sempre più corto e l'urlo di terrore strozzarsi in gola fino all'ineluttabile resa finale.


Forse, ieri, la debolezza fisica temporanea (spero) del mio passo attuale, dovuta a un insignificante residuo di un incidente altrettanto insignificante, mi faceva percepire in maniera come dilatata la drammaticità di quegli spari.


Come se io stessa fossi in pericolo me ne sono tornata prima di quanto non avrei fatto altre volte nel percorso più in vista, felice di avere indosso colori sgargianti a contrastare quegli spari che fendevano il silenzio e i miei pensieri.



Poi ho visto un pavone, proprio in mezzo alla strada larga e grigia, quella non boschiva e dove non ti aspetti alcuna sorpresa o meraviglia e invece. Con l'immediatezza di chi è un po' malato di cinema come me mi è venuta subito alla mente una delle scene che amo di più in Amarcord.


Così, avendo negli occhi la ruota surreale del pavone di Fellini nel nitore della neve e confidando nel maggiore realismo della mia macchina fotografica ho scattato perché non si dicesse, o io non sospettassi, che si era trattato solo di una fantasia.


Ce l'ho la prova che l'ho visto davvero, quel pavone; sfocato, distante, con uno sfondo prosaico, ma riconoscibile per quello che è: bello come le gioie che la vita può riservarci proprio quando non pensiamo che possano arrivare più.




martedì 20 ottobre 2015

Prove d'orchestra



Ieri sera sono andata ad ascoltare la prova generale dell’orchestra dell’università per il concerto di stasera al Teatro Verdi.


Si teneva in un’aula ed ero appena uscita da un’altra simile per le prove del coro, in quel caso coinvolta attivamente. Mi piace molto l’informalità delle prove e quel clima tra il gioioso e il timoroso che si respira quando l’evento pubblico è molto vicino.



Custodie di violini o di fiati sparse un po’ ovunque, leggii, archetti, vestiti di diversi colori e per lo più giovani studenti, come quelli che in ore precedenti della giornata avevo avuto a lezione.



C'ero andata anche lo scorso lunedì, sempre dopo il coro, ed essendo le due prove contigue come orario avevo cenato con dei wafer e un succo di frutta delle macchinette distributrici dell'atrio.



Ieri sera è andata meglio: ho fatto in tempo a prendere un toast e una spremuta, ma va bene così. Infatti, come credo accada anche ad altri non più studenti, cioè per esempio ai docenti dell'università che suonano nell'orchestra (e che per ora sono pochi, in percentuale) considero un piacevole privilegio potermi confrontare con le nuove generazioni.


A me, poi, sembra molto bello anche che dei giovani studenti, insieme ad altri più esperti perché già diplomati a un conservatorio e più avanti nel percorso formativo universitario, condividano questa comune passione e la possano praticare nella cornice stessa e con il supporto concreto dell’università che frequentano. 


Sono sempre stata convinta, infatti, che lo studio di per sé, se non accompagnato dalla passione e dalla capacità di godere di tutto ciò che di bello la cultura ci ha regalato nel tempo, rischi di ridursi a una pratica arida e tecnica e, alla fine, poco incisiva in ciò che più conta: la formazione di una persona e della sua identità.





lunedì 5 ottobre 2015

Ciò che non può tornare (dopo Settembre).

Questa e le foto successive sono state scattate in una passeggiata settembrina nei luoghi che più familiari non ce n'è, per me.
Settembre, almeno per me, è sempre stato un mese bellissimo, ma malinconico. E' il mese del commiato dall'estate. Un addio lento e ambiguo che si trascina incerto mentre i gialli luminosi si trasfigurano nei rosa ed è ancora lontana l'esplosione passionale dei colori dell'autunno. 

Questi luoghi sono stati lo scenario dei giochi dell'infanzia e poi di 
un'adolescenza un po' scontrosa.
Forse la malinconia dipende anche dal fatto che ricominciando l'attività normale emerge a coscienza tutto ciò che abbiamo trascurato, ma anche qualche rimorso, per quando non siamo riusciti a comportarci così come ci sarebbe piaciuto.

Se non bastasse, poi, per qualche recondito motivo proprio in questo mese si fanno improvvisamente vividi i ricordi delle ferite più recenti che associamo a quelle più antiche. Le ferite del cuore, si sa, non possono guarire mai. Hanno delle loro cicatrici resistenti e chi le porta le riconosce subito e a volte le carezza o perfino le ama, negli altri.

Ci si può anche innamorare del coraggio di qualcuno nel non nascondere le proprie cicatrici. A volte, però, le ferite del cuore diventano un alibi per non lasciarsi andare, per non rischiare. Altre volte, invece, crediamo di liberarcene brandendo noi stessi il pugnale con il quale ci sono state inferte.

Rivolgiamo a un altro le parole che in passato non abbiamo compreso, che ci hanno disorientato, sgomentato, fatto soffrire. Le stesse, proprio le stesse. Con quella faccia lì di chi, ferendoci, le aveva pronunciate per noi. Guardiamo riflessi negli occhi umidi di chi ci sta di fronte, nel tremito delle sue labbra, noi stessi di un tempo precedente.



Ma non lo sappiamo. Crediamo, così, di poterci liberare del nostro piccolo grande dramma e invece lo ripetiamo, ripetiamo, ripetiamo come una condanna e a volte anche per una vita intera, ora recitando la parte di chi impugna il coltello, altre volte quella di chi ne viene colpito.

Le ferite del cuore ci possono rendere anche insensibili, possono farci paurosi di fronte a un orizzonte tutto da costruire, duri, superficiali o cinici.

Le ferite del cuore ci possono, al contrario, anche rendere migliori, cioè più capaci di attraversare i conflitti, le contraddizioni, le paure dell’altro e le nostre intrecciate; di amare e di farci amare. Bisognerebbe solo ricordarci che possiamo scegliere, quando la vita ce ne offre l’occasione. 

Tutto appare così vicino e distante insieme. Nitido e sfocato.
I ricordi lontani, intendo.