mercoledì 22 luglio 2015

L'una di notte, forse più tardi.


Stanotte non riuscivo a dormire; così mi sono alzata, ho acceso il ventilatore a colonna e nel silenzio notturno della casa mi sono messa a scriverne. No, non riuscivo proprio a dormire, in nessun modo. Il motivo – sembra incredibile – era perché mi aveva turbato il film di Jean Jacques Annaud che avevo visto.


Cinema all’aperto, qualche refolo miracoloso, cono gelato nell’intervallo come d'abitudine e il cuore che batteva durante la visione. Però batteva troppo forte, ieri sera, perché ero molto coinvolta e quel che è peggio perché ero sempre vigile e tesa, dato che stavo dalla parte di quasi tutti: di molti degli uomini e delle loro ragioni, dei lupi e delle loro ragioni, delle pecore e delle loro ragioni, dei cani da pastore, delle gazzelle, dei cavalli, degli adulti e dei bambini.



In altre parole: capivo, ma non riuscivo a sentire, guardando il film, dove stesse il bene e dove stesse il male. Bene e male sono categorie rassicuranti e un po' ingannevoli, perché nessuna delle due è assoluta, ma mi sembrava che mai mi fossero apparse così logore, e quindi inservibili, come di fronte alle bellissime immagini dello schermo gigante e alla loro crudezza, al loro spietato realismo. Diverse volte ho dovuto abbassare gli occhi per non guardare, ieri sera. Al cinema prima, e a casa poi, nel ripensare il film, mi sono sentita disorientata e stranita. 


Mi sono ricordata, poi, che qualcosa di simile mi era capitato per il bellissimo e crudo Grizzly Man di Herzog, tanto più che in quel caso si trattava di una vicenda reale e il film era praticamente un documentario, mentre quello di Annaud era stato preparato, persino addestrando i lupi, in quattro lunghissimi anni. Nel film sono stati impegnati, infatti, 480 tecnici, 200 cavalli, circa 1000 pecore e 25 lupi, tra i quali alcuni cuccioli cresciuti durante la lavorazione, con 50 addestratori. Il più famoso di essi alla fine delle riprese si è poi portato con sé i cuccioli di lupo che aveva allevato.


Natura e cultura: detto così suona solo come un problema filosofico poco coinvolgente dal punto di vista emotivo. Eppure sono qui, ancora un po' turbata, a pensare alla crudeltà inevitabile della vita e a quella che invece si potrebbe evitare.
Stanotte, in attesa del sonno, guardavo i miei due gatti che intanto si azzuffavano, per contendersi un nonnulla, quasi come due grizzly feroci e mi pareva di non sapere più riconoscere neanche loro.

Poi Ulisse si è avvicinato a chiedere qualche carezza nel suo consueto modo buffo e un po’ rude, picchiettando con la testa contro la mia mano. Avrei voluto, come spesso mi accade con gli animali che conosco, entrare nei suoi ineffabili pensieri, conoscere dal di dentro la natura della sua gioia o del suo dolore. Mi capita spesso, pur sapendo bene che non è possibile e che di ciò che passa nella testa dei nostri animali compagni di vita si può solo fantasticare, deducendo qualcosa dai loro comportamenti.



Gli occhi dei lupi, però, il loro sguardo fisso, profondo e distante, e quello, diverso, del cucciolo allevato tra gli umani, ancora non riesco a dimenticarli. 

sabato 18 luglio 2015

Attraversando il tempo


Le foto, e anche le riflessioni, sono relative a una gita in Val d'Elsa di un paio di settimane fa, in luoghi che da tanti anni non visitavo. Ne avevo dei ricordi abbastanza vividi perché da neopatentata erano stati meta di vari giri rituali con la mia nonna materna nelle ricorrenze novembrine, per visitare cimiteri di piccole comunità e, già che c'eravamo, anche alcuni luoghi della sua giovinezza. 


Con la vecchia 500, che avevo convinto mio padre a non rottamare, andavamo per cimiteri e rendevamo un saluto a persone che non avevo mai conosciuto: bisnonni e bisnonne, prozii e prozie, cugini dei miei nonni e così via.


Tra i defunti cui rendere omaggio c'era quello che la mia nonna chiamava "lo zio priore", presso la cui canonica aveva abitato da giovane ragazza in un'atmosfera di severità guardinga e ombrosa. La foto sulla lapide mostrava lo zio priore in tonaca con in testa il cappello denominato "berretta ecclesiastica", di feltro e dotato di piumino rotondo al centro. Davanti alla sua tomba la nonna mi raccontava, con gli occhi sognanti, di quando si era calata dalla finestra per ballare la proibita quadriglia in piazza. Quindi proseguiva, ogni volta inserendo qualche piccola variante, snocciolando una serie di aneddoti sulla difficoltà di parlare da sola con il fidanzato, quello che poi sarebbe diventato mio nonno, e di scambiare con lui qualche effusione senza testimoni.


Di quei piccoli tour nostalgici mi era rimasta l'immagine delle pietre color ocra di costruzioni abbastanza simili a quelle familiari di Volterra. Ricordavo, poi, finestre e balconi fioriti di gerani, piccoli orti di piante aromatiche, gatti in meditazione sui gradini davanti alle case, odore di bucati stesi al sole e di semplici pranzi toscani. 


Per questo, e benché preparata a trovare differenze tra l'oggi e i ricordi dello ieri, mi sono sentita davvero disorientata in una cornice che mi è parsa subito irriconoscibile, benché ci fosse qualche lodevole eccezione.


Incuria, cartacce per terra ed erbacce, fili della luce attorcigliati e disposti nella maniera più disordinata possibile lungo i muri delle case, esercizi chiusi proprio nel periodo più turistico e, soprattutto, un senso insopportabile come di inospitalità. Mi sembrava, insomma, quasi di respirare nell'aria il non apprezzamento, da parte degli abitanti, delle bellezze e della storia di quei vecchi centri storici.



E' il destino dei tanti nostri piccoli centri e comuni quello di perdere identità attraverso la sottrazione della memoria, dimenticando abitudini antiche e rituali e modalità consuete di socializzare negli spazi comuni oltre la porta di casa. Sembra ormai estinto un po' ovunque il desiderio di cura di ciò che è patrimonio di tutti perché non è, alla fine, proprietà esclusiva di nessuno: le stradine, i vicoli, le gradinate e i muretti, le piazzole e le piccole corti.


Il colorato e banale bucato steso in uno dei luoghi meglio preservati tra quanti ho rivisitato, mi è sembrato come un dono e l'ho fotografato quasi con atteggiamento religioso, con il rispetto e  lo stupore legati all'incontro con la bellezza inaspettata.


Razionalizzazioni: le chiamano così. In base alla filosofia delle razionalizzazioni ci si pongono domande che a me sembrano assurde. A che serve una scuola se i bambini possono essere dirottati in un altro plesso e far risparmiare sui docenti e sulle strutture? A che serve una biblioteca, se chi vuole può raggiungere quelle della più vicina città con l'auto? 


E' triste il destino di quel popolo che rischia di perdere le proprie tradizioni omologando colori, odori e gusti invece di valorizzare le piccole realtà nella loro irripetibile differenza di abitudini antiche, di storia e persino di odori e sapori. 


Lo confesso: credevo, chissà, di incontrare mia nonna ragazza per quelle strade antiche o di sentire l'eco sommesso della sua voce inframezzato a quella specie di basso continuo estivo che è il frinire ritmico delle cicale.



Ma i fantasmi non amano i luoghi violentati nella loro storia e a un certo punto ho pensato che fosse per questo che non l'avevo incontrata e che di certo doveva essere fuggita altrove.


Più  tardi l'ho trovata, invece, sul fare della sera. Ormai anziana come l'ho conosciuta, stretta nelle sue vesti nere a piccoli disegni bianchi, con la borsetta fatta a mezzaluna e la chiusura rigida, a scatto, come da tanto non si usa più. Aveva al braccio, insomma, una di quelle vecchie borse trovate in cantina con le quali giocavamo da bambine. 


L'ho trovata, mia nonna, guardando ancora una volta rapita le drammatiche statue di terracotta di San Vivaldo. Mi sono apparse, quelle scene di materia inerte, uguali a come le ricordavo e più vivide dei vivi che avevo incontrato nelle ore precedenti.


Quelle terrecotte con personaggi a grandezza naturale, vestiti in abiti rinascimentali e molto colorati, non sono troppo note e non so dire quale valore artistico possiedano, ma ne hanno moltissimo dal punto di vista della storia del nostro immaginario.


Ci sono i volti che impauriscono, quelli del potere e quelli dei sentimenti cattivi: della crudeltà, dell'invidia e della rabbia ingiusta.


Sono scene pensate per dialogare con le emozioni popolari più profonde di paura e di angoscia e generare identificazioni viscerali e immediate.


Identificazioni, per esempio, tra la morte innocente di una divinità e quella dei propri figli, fratelli e giovani mariti mandati in guerra o destinati a consumarsi nella fatica di un lavoro ingrato e mal remunerato.



E così, come dicevo, quando ormai non ci speravo più, mia nonna l'ho incontrata davvero, in quei luoghi. L'ho trovata (proprio io, non credente) tutta avvolta nel suo crudele e duplice lutto di madre, rispecchiata in quell'altra madre dolente la cui immagine ha attraversato i secoli: simili nello sguardo, simili nella dolcezza della postura e dei gesti, le labbra socchiuse in un sorriso solo accennato, ma le mani, a volte, protese e aperte, quasi pronte a regalare una carezza. 













venerdì 10 luglio 2015

Di giochi e di viaggi immaginari.

Questa e le successive immagini sono relative a
"I 400 colpi" di  
François Truffaut
A volte, guardandoci alle spalle, ripensiamo qualche persona che non frequentiamo più con un senso di stupore. Ci chiediamo, infatti, come abbiamo potuto essere amici, tanta è la distanza attuale.


Capita anche che quelle stesse persone le incontriamo per strada o che leggiamo in rete le loro parole. Sono cambiate, non erano così. Pensiamo questo, ma in realtà, forse, siamo noi a essere cambiati, a non riuscire più a sognare il volto bello dell’altro e a disvelarlo lasciando che a sua volta sogni e disveli il nostro.




Ci si sente un po’ più soli di fronte a qualcuno che non riconosciamo più. Poi guardiamo avanti e accanto a noi, alla rete di amicizie che sopravvive al tempo, ma anche ai nuovi amici incontrati strada facendo. In fondo, pensiamo, siamo rimasti bambini. “Allora prendo le mie cose e vado a giocare davanti al mio uscio!”. Dicevamo da piccoli dopo un'incomprensione, per sancire una distanza.






Perché nel mio piccolo paese giocavamo in strada, liberi. Portavamo giocattoli o oggetti di accatto - cianfrusaglie delle cantine, stracci riesumati da vecchi bauli, foglie, fiori e sassi raccolti sul ciglio della strada  - davanti alla porta di qualcuno di noi o su qualche gradinata e li cominciava il viaggio. Come Antoine, a volte, ci avvolgevamo delle parole di un libro per sognare. Come Antoine, poi, finivamo sempre per prendere il volo e correre e correre lontano, dalla nostra collina al mare.





Com'è bello, Antoine che corre attraverso il bosco, lontano dal collegio e dalla sua disciplina sadica e insensata, da ogni incomprensione, dall'angustia delle alte mura e del nero corteo di banchi di scuola! Corre finché per la prima volta respira, con gli occhi e con la mente, l'immensa, aperta distesa del mare.





Senza neanche togliersi le scarpe si abbandona, lentamente, alle carezze dell'acqua; e così ci lascia l'immagine inquieta di uno sguardo stupito, capace di legare insieme i ricordi di tristezza e la possibile felicità del presente.