domenica 22 marzo 2015

I medici, il disincanto e i vegetali


Rembrandt, La lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632
Più di una settimana fa, prima di una subdola e violentissima influenza, ho visto un bel film, tratto da una storia vera e ambientato in Polonia. Eravamo solo in due, la mia amica e io, e credo che dipendesse  dall’argomento e dall’idea diffusa che al cinema, no, non si va per stare male e neanche per pensare, ma per evadere, per cercare leggerezza. Eppure non c’è mai alcuna nota di pietismo, in quel film.


Io sono Mateusz, di Maciej Pieprzyca


La pietà, del resto, è il sentimento più freddo che possa esistere, perché ribadisce una distanza fisica ed emotiva tra chi è più fortunato e chi lo è meno, tra chi ha una qualche contrattualità sociale e chi non ne ha per niente. Il Mateusz protagonista del film è affetto da tetraparesi spastica; in pratica si tratta una paralisi cerebrale infantile che ha origine da una lesione al sistema nervoso legata, in genere, al parto e che può comportare o meno gradi diversi di ritardo mentale.




Mateusz, però, ha un’intelligenza perfettamente normale, ma non le viene riconosciuta finché non è adulto perché la comunicazione è per lui pressoché impossibile: come tutte le persone in condizione analoga ogni progettualità motoria viene coartata e ostacolata dall’ipertensione del tono muscolare, dalla preponderanza di riflessi arcaici e dalla disartria.




Lui vorrebbe indicare, abbracciare, parlare, forse, ma se ci prova le sue braccia si irrigidiscono e il suo volto diventa tutto una smorfia. Il collo e il tronco tesissimi, le cosce e i piedi intraruotati, le mani contorte, lo strabismo correlato ai problemi neuromotori: tutto, tutto si trasforma in messaggi respingenti e sembra impossibile persino immaginare di abbracciare quel corpo che si fa duro come il legno al solo sfiorarlo. “Suo figlio è come un vegetale”. E’ una frase assurda, stupida, oltre che crudele, che più spesso di quanto non s’immagini viene usata da quelli, tra i medici, che pieni di razionalità disincantata se ne servono per non coinvolgersi rispetto al vissuto soggettivo di una malattia.




E così anche lui, Mateusz, quella frase la sente spesso. Un vegetale. Si agita, Mateusz, quando immagina parole da dire e cerca di comunicare qualcosa, ma dalla sua bocca escono solo suoni gutturali e urla scomposte o grugniti e allora gli dicono di stare calmo, che va tutto bene; ma lui no, lui urla più forte, perché non va tutto bene e non lo capiscono e non sono sfiorati da alcun dubbio. La probabilità che possa avere anche un certo grado di ritardo mentale diventa presto una certezza scientifica, benché non comprovata, e lui si rassegna; finche riesce a usare un alfabeto speciale e indicandone i segni compone parole e frasi mostrando agli altri che è intelligente, che li ha sempre capiti.




Nella sala semideserta scorrono le immagini di Mateusz che cresce, che non entra più nel passeggino da bambini, capace di donare un’illusione effimera di possibile evoluzione; e poi di Mateusz che diventa ragazzo; e ancora di Mateusz che s’innamora e desidera e diventa uomo e sperimenta il vero e più profondo dolore di chi vive in una condizione di disabilità grave; e quindi di Mateusz che osserva da dietro i vetri di una finestra la vita degli altri.




Guardo il film come rapita e intanto penso ai miei quindici anni di lavoro, prima di quello attuale, a stretto contatto con persone simili a Mateusz, oppure prive di capacità cognitiva o preda della deriva psicotica o, ancora, distanti come solo le persone autistiche possono sentirsi. Penso alle tante volte che ho provato il senso profondo dell’ineluttabilità e ho abbassato gli occhi, improvvisamente umidi di malinconia o di rabbia impotente. “E’ come un vegetale”. L’ho sentita anche nella mia vita privata, questa frase, in riferimento a qualcuno che mi era caro e che se ne sarebbe andato poco dopo.




E non mi sono fidata. Mi sono detta che chissà, forse, invece, poteva sentirmi in qualche modo, forse percepiva come familiare il mio odore o era in grado, per qualche strada ancora sconosciuta alla scienza, di farsi raggiungere dalle mie parole, dal soffio emozionato della mia voce. Così, incellofanata e sterilizzata, indossando la mascherina e le sovrascarpe di nylon e tutto, mi sono fatta vicina a quel corpo avviluppato e ingiuriato da tubi e cateteri, esilissimo sotto il bianco del lenzuolo e ho sussurrato le parole che desideravo dire con la fiducia che in qualche modo, forse, sarebbero state raccolte.


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