lunedì 8 dicembre 2014

Estragone, Vladimiro e le onde che si frangono sugli stessi scogli

Castello Pasquini a Castiglioncello, dicembre 2014
Ieri ho visto di nuovo Estragone e Vladimiro, rapita dalla particolare lettura alla quale ho avuto il piacere di assistere, nel buio della saletta raccolta di un luogo familiare e bello come Castello Pasquini. 

Passeggiata "Alberto Sordi", Castiglioncello, dicembre 2014

Non accade nulla. Non accade nulla per due volte. Eppure, Aspettando Godot, è forse una delle opere teatrali più note del 900. Ed è anche, credo, tra le più complesse da interpretare, sia per chi lo fa come critico sia per chi lo fa come attore. Io non sono né l’una né l’altra cosa, però amo il teatro e mi occupo da molti anni - in un’altra fase della mia vita a diretto contatto - di soggetti autistici e  psicotici, del mondo della disabilità nelle sue variegate espressioni e di quello della follia. Per questo sono rimasta piacevolmente stupita, ieri, nell’assistere a uno spettacolo che ancora spettacolo non era, quanto piuttosto, come dice il regista Maurizio Lupinelli, uno studio di spettacolo. Qui il link. 


Castiglioncello, dicembre 2014

Interrogato tante volte perché disvelasse l’identità di Godot, Samuel Beckett, si sa, finalmente rispose, non so se più piccato o seccato, che se l’avesse saputo l’avrebbe scritto nel copione. Si è cercato troppo di sovrainterpretare quest’opera, l’abbiamo caricata di un simbolismo esasperato e infine assimilata al teatro dell’assurdo, inteso come messa in scena del surreale, ma sarebbe bastato immergersi, anche solo per un giorno, nel mondo della follia dei manicomi, e di quest’opera sarebbe stato possibile percepire tutto il doloroso e lucido realismo. Nei manicomi i folli girano in cerchio, ricalcano i propri passi. In cerchio, come in un eterno presente di sospensione. E ripetono ecolalicamente le solite frasi attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Spesso si tratta di domande che riguardano il tornare a casa; con la stessa frequenza e intensità drammatica, però, le domande riguardano il quando arriva qualcuno.
Castiglioncello, dicembre 2014
Come l'acqua del mare che si frange sugli stessi scogli e li carezza, si allontana e ritorna, incessantemente, le domande dei folli
 restano sospese nell’aria perché, in fondo, che Godot sia qualcuno o nessuno non cambia niente. Qui si tratta dell’attesa dilatata e messa in scena nella danza delle stereotipie motorie psicotiche e del dondolarsi avanti e indietro, proprio del tipico autocullarsi all’infinito che i medici hanno chiamato “rocking”. Cullarsi, anestetizzarsi, consolarsi e aspettare che tutto passi; non diversamente, in fondo, da chi abita il territorio della quasi normalità, cioè noi, quando proviamo un forte dolore o una forte gioia. Ci lasciamo andare a uno stesso ritmo binario per la ninna nanna o per la disperazione.

Castello Pasquini, Castiglioncello, dicembre 2014
Ecco perché, e sembra paradossale, interpretare Beckett, sia pure rivisitato e per frammenti, da parte degli attori che ho visto ieri in scena, può sembrare quasi naturale, semplice, familiare. Anche se il lavoro di preparazione è stato invece sicuramente complesso, lungo e faticoso.



Castiglioncello, dicembre 2014
Il percorso laboratoriale di Maurizio Lupinelli e della Compagnia Nerval Teatro è iniziato nel 2006. Di questo percorso ho ancora impresso nella mente il bellissimo Marat, tratto liberamente da Marat-Sade di Peter Weiss, con tantissimi protagonisti, persone con  disabilità di diversa natura e di età differenti.

Castiglioncello, dicembre 2014
Era il 2007 e lo ricordo perché ne avevo scritto, allora, all’interno di un articolo più ampio sul disgregarsi della cultura e sull’enorme ingiustizia esercitata dal potere mediatico nel dare risalto o nel condannare al silenzio le opere teatrali, letterarie, musicali o cinematografiche contemporanee. 



Castiglioncello, dicembre 2014
Ne riporto la parte specifica:
“A febbraio, a Castiglioncello, va in scena Marat (dal Marat-Sade di Peter Weiss): la drammatizzazione dell’omicidio di Marat a opera dei ricoverati nel manicomio di Charenton guidati dal Marchese de Sade, folle tra i folli. Regista e drammaturgo è Maurizio Lupinelli, sul palco insieme a una cinquantina tra attori professionisti, operatori della riabilitazione e, soprattutto, soggetti disabili psichici o psicofisici, non pochi dei quali prigionieri, nell’uso delle parole, della difficoltà di articolazione o di alterazioni stereotipate dell’espressività locutoria.
Anche in questo caso mi guardo intorno, nel buio, quasi a spiare i volti degli altri spettatori. Non so come accada, ma percepisco che ci sentiamo vivi: attraverso le parole di chi si muove nello spazio scenico, anche se ci arrivano talvolta un po’ deformate; attraverso la prosodia che le accompagna, ora quasi cantilenante, ora, invece, quasi meccanica, aspra, scarna; attraverso le espressioni del volto che si trasmutano in smorfie e rapidamente si ricompongono nelle maschere consuete della normalità; attraverso le nude sillabe o le frasi ripetute; attraverso i gesti e gli occhi in quel loro rivolgersi verso di noi quasi cercando il riconoscimento di esistenza nello sguardo ricambiato. Osservo i miei simili, nella penombra che confonde i contorni dei corpi e delle cose: tutti quanti ci sentiamo percorsi da brividi di sensazioni forti o dal ricordo nostalgico di teneri struggimenti. Non c’è alcuna retorica in questa rappresentazione della diversità che ci fa sentire tutti differenti e nello stesso tempo uguali gli uni agli altri: carnali nell’intensità della rabbia e della gioia, nel trascorrere dall’uno all’altro delle emozioni, nell’ammutinamento della mimica o nella sua esasperazione. Ognuno di noi è spettatore e attore insieme, perché tutti veniamo catapultati nella dimensione formativa dello spaesamento; ci sentiamo prendere per mano e ci lasciamo stupire, disponibili, finalmente, ad attraversare l’ignoto. Nessuna fanfara mediatica, temo, racconterà mai tutto questo.”


Castiglioncello, dicembre 2014



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