lunedì 24 novembre 2014

Così realista da sembrare fantascienza


Germania anno zero, Roberto Rossellini, 1947
Così realista da sembrare fantascienza. La vera protagonista è la città distrutta e animizzata nelle sue voragini come bocche che urlano, nelle sue finestre sventrate come occhi dilatati che ci perseguitano e ci spiano, nei nostri incubi peggiori, e ci mettono  a nudo nella nostra fragilità.


Non c’è più un soggetto, un dentro o un fuori, ma macerie, polvere, stracci e poi lui, Edmund, che vediamo quasi sempre di profilo, di tre quarti o di spalle e così gli camminiamo accanto o lo seguiamo, quasi fossimo suoi compagni di vita o di scena.



Edmund dallo sguardo perso e dai pensieri da uomo fatto, troppo pesanti per quelle gambe magrissime e goffe che vorrebbero calciare la palla di cencio con gli altri bambini e lo guidano, invece, al suo volo verso l’unica libertà che gli resta.



Che emozione vedere sul grande schermo questo film! Un film che è riduttivo definire realista, perché parla dl visibile e di invisibile insieme mentre le macerie e i ruderi che definiscono la città si riverberano nel mondo interno di ciascuno.



Insieme al bambino biondo, che bambino non è mai stato, sentiamo tutto il dolore inflitto agli uomini dal secolo più crudele, il XX.



Quello delle due guerre mondiali, delle dittature e degli abissi di disumanità che ci hanno lasciato stigmate impossibili da cancellare.


domenica 9 novembre 2014

Alla fine ho trovato il coraggio e l'ho fatto...

Firenze, 7 novembre 2014
Venerdì sera. C’è un dipinto sul muro. Io sono una che legge anche le scritte dei bagni pubblici, oltre a quelle dei muri e a quelle incise sulla corteccia degli alberi. Cuori trafitti, nomi intrecciati, frasi di addio o di inizio di un amore mi invitano a nozze e parto con le supposizioni romanzate e la fantasia…Un cuore rosso sul muro giallo, una sagoma nera e un’altra, alla base del muro, non si sa se a testimoniare qualcosa o ad attendere.

Stessa strada, in basso, sotto il cuore e tra foglie cadute.
Vado avanti, voltandomi indietro due o tre volte a riguardare quel cuore rosso. Una volta seduta, dopo poco sento le gambe pesanti e un dolore insopportabile ai polpacci, ma nello stesso tempo ho freddo alle spalle e alla testa. Nonostante i disagi di questo cinema non familiare, con il riscaldamento sotto i piedi e spifferi tremendi dall’alto, il film di Wenders sulla vita di Salgado mi trascina quasi subito con sé, in un’altra dimensione.



Dapprima è quella del dolore e della perduranza del male, lungo i secoli, riverberato in quei corpi ammassati, quelli dei vivi e quelli dei morti per l’insensatezza degli uomini; gli uomini che dovrebbero essere il sale della terra e la bruciano e si uccidono e si sfruttano l’un l’altro.




Una crudeltà indicibile attraversa le epoche e la storia e quegli occhi dal dolore profondo ci scavano dentro, specialmente per il bianco e nero delle foto, e ci precipitano nell’abisso del non senso.




Poi, però, è la volta delle immagini di "Genesi" e attraverso di esse la terra ci è di nuovo madre. Si tratta di immagini che avevo già visto lo scorso anno a Venezia, in una bella mostra della quale ero convintissima di avere acquistato il catalogo.


Il catalogo non ce l'ho, ma ho questo poster, ancora arrotolato
Ma il catalogo a casa non c’era ieri sera, quando avevo fretta di uscire, e non c’era stamani, quando ho guardato con più meticolosità. Un falso ricordo; capita.
Sabato sera. Lo spettacolo di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza è bellissimo, coinvolgente, straniante, appassionato.


Le musiche avvolgono come un abbraccio corale chi guarda, prigioniero della sua poltroncina, in attesa di riacquistare la propria liberà, e chi si lascia guardare in questo che per lui è invece un raro spazio di libertà, in attesa di ritornare dietro le proprie sbarre.


Loro si muovono tra noi e sul palco, truccati e vestiti come figure di sogno, con tutta l’esagerazione e il sopra le righe che solo chi è libero può concedersi; intendo chi è libero di urlare o di sussurrare, di stare in alto o in basso, di entrare nel cono di luce o di raggomitolarsi nell’ombra per un po’ senza che altri lo decidano per lui. Non hanno niente da perdere, loro.


Invece, noi. Noi siamo immobili, come inchiodati al nostro posto e tratteniamo un po’ il respiro, ma a un certo punto vengono a liberarci, vengono a chiedere di entrare nel vortice del valzer, invitando quelli che sono seduti dove possono alzarsi senza disturbare nessuno. Io vorrei tanto ballare, ma sono seduta al centro della mia fila e non posso uscirne. Qualcuno di quelli a cui viene chiesto, invece, si rifiuta spaventato scuotendo la testa. Il timore è quello di perdere la dignità: è il timore di chi è libero e dunque trasforma da solo la sua libertà in un’invisibile prigione.


E’ la prigione delle convenienze, delle abitudini, della ricerca di accettazione a tutti i costi, dell’immagine che si è scelto di offrire agli altri e a noi stessi, del bisogno spasmodico della loro approvazione, della paura di lasciarsi andare alle emozioni e ai desideri profondi.
Torno indietro di poche ore, al mio sabato mattina. L’auto attraversa veloce le colline familiari ed eccomi da mio padre. Non mi accompagna, preferisce gli amici, i tavolini del bar della piccola piazza dove ho appena condiviso con lui un caffè e così vado da sola a fare una lunga passeggiata prima di ripartire.


Ho deciso di fotografare l’arancione, il colore che da sempre preferisco su tutti gli altri e dunque mi diverto, strada facendo, a scoprirne tutte le variazioni sul tema che la natura può offrire. Passeggiando ripenso al film di Wenders nella sua parte finale, alla vita di Salgado, alla mostra senza il catalogo di ricordo e mi viene il desiderio di fare una cosa strana.

Sempre Salgado, naturalmente.
Vorrei abbracciare un albero, uno di quelli che mi hanno vista passare in tutte le età della mia vita. Non vorrei sceglierlo in base alla sua bellezza, ma solo per il suo ruolo di testimone partecipe. Vorrei abbracciare, ecco, un certo cipresso. Ma se mi vedono? Farei una magra figura in questo piccolo paese che è sempre stato attraversato da pettegolezzi e ironie pungenti, dato che di eclatante non succedeva mai niente e molti ingannavano il tempo così. Ho la tentazione di guardarmi intorno per vedere se le tre persone che ho incrociato sono sparite dietro la curva, ma non mi volto.


La principessa di Edward Robert Hughes, data che non so
Chissenefrega, sono sempre stata me stessa e non mi interessa, oggi come ieri, che il giudizio delle persone a cui voglio bene e che me ne vogliono. Intanto mi avvicino all’albero che ho scelto, a quel cipresso sotto il quale, da bambina, ho sostato tante volte, la mano stretta in quella grande di mio nonno che mi spiegava la differenza tra i vari alberi, il nome e come avveniva l’inseminazione e io capivo il giusto, a quattro o cinque anni, ma mi piaceva lo stesso ascoltarlo. Quando l’albero ce l’ho davanti, lo guardo, alto e fiero e mi pare che sussurri di abbassare lo sguardo e  così vedo la mia ombra, cioè una me fatta di piccole foglie aghiformi e anch'io senza più le braccia.


Alla fine trovo il coraggio e lo faccio. Sbottono il cappotto che indosso e mi appoggio con tutto il corpo al suo tronco, apro le braccia, lo avvolgo. Sento un grande calore pervadermi tutta che non so più se sia il mio o il suo o il riverbero di un abbraccio in cui presto le mie braccia a chi braccia non ne ha, o verità o sogno. Resto ferma così abbastanza a lungo e sento battere forte un cuore, il mio, il suo, non lo so più; chiudo gli occhi per sognare qualcosa e sono come ridipinta tutta anch’io di verde, nel profumo che l’albero mi regala per compensare il mio abbraccio e che è ora anche il mio e mi commuovo, proprio come una stupida.

Władysław Ślewiński, Donna che dorme con gatto, 1896


domenica 2 novembre 2014

Tra me e la casa nera c'è una distesa di ulivi


Il caco - Montecatini Val di Cecina
C’è tutto ciò che mi aspettavo ci sarebbe stato: le foglie rosse del caco, l’azzurro intenso del cielo di collina, il silenzio e la torre antica, imponente, quasi una grande madre del minuscolo paese.

Il caco dei miei, ancora lui

Ha visto tutto, lei. La grande guerra e poi quell’altra, le processioni fasciste giù, sotto, nella piazza, i vestiti della festa e quelli della povertà e i minatori e i contadini e i signorotti locali, quelli illuminati e quelli meno, a spasso con le loro signore con la borsetta.




Ha visto il socialismo e le faide di altri secoli, attraverso le sue feritoie atte a spiare le vicine colline e soprattutto la vicinissima rivale: Volterra.



Torre Belforti

Ci si incammina dopo pranzo e la lista di ciò che non c’è più comincia molto, molto prima del cimitero.


La fonte, nella piazza del paese. 
In teoria dovrebbe essere un leone. Il paese, del resto, anticamente si chiamava Castrum Montis Leonis o anche Monte Leone. Però, a noi bambini, sembrava piuttosto un orso, travestito da leone...

La scuola elementare, per esempio, non c’è più. I bambini vengono portarti, ancora assonnacchiati, in scuole vicine. Però c’è ancora il cartello, a ricordarci che non c’è più.



Ogni volta ci ridiamo con i miei fratelli o con mia sorella. Scendevamo quelle scale in fila, con la propria maestra in testa e prima le femmine, poi i maschi. Al cancello e dopo un anacronistico ”atttt-tttenti” e “ripp-poso”,  risuonava il “libere le femmine” di una determinata insegnante.


Intanto i maschi venivano trattenuti ancora un poco, per permettere a noi bambine di avere un piccolo vantaggio e un sollievo dai loro scherzi e poi veniva il “liberi i bimbi”. Si cammina ancora e si entra nel cimitero. Lo percorro tutto e incontro sempre qualche persona che non vedevo da anni, compagni di scuola o di giochi; passeggiando sotto, sopra, a destra e a sinistra, ricordo storie lontane, vite felici o dolorose, vengo invasa da una sottile malinconia, ma a volte dalla voglia di ridere ancora per qualcosa di buffo che riguardava qualcuno di questi che non ci sono più: un soprannome, un vizio, una mania…


I cimiteri delle piccole comunità sono diversi da quelli di città. Conosci tutti oppure, se non li conosci, sai di chi sono gli antenati e ritrovi, in questa o quella foto, i lineamenti familiari di qualcuno che ti è coetaneo. Ecco che mi affaccio dal retro e da sopra e guardo lontano la sagoma nera, in controluce, di una casa colonica con quattro cipressi attorno e un vicino boschetto.


Tra me e la casa nera c’è una distesa argentea di ulivi bellissimi. Era il podere “Santa Barbara” e lì abitava la famiglia della mia tata che era stata alunna di mia madre e poi era venuta a vivere con noi. Ma i fine settimana mia sorella ed io li passavamo spesso in quella casa, a rotolarci nelle montagne di grano del granai e a prendere confidenza con gli animali.


Ne ho visti molte volte, ancora piccola, accoppiarsi; e poi ho visto lo schiudersi delle uova e il venire al mondo di maialini, di gatti, un’unica volta persino di un vitellino. Sempre lì, purtroppo, le grida di paura del maiale, nei giorni della sua morte, ogni anno, mi hanno spezzato il cuore. Quello stesso maiale a cui portavo da mangiare, nei fine settimana campagnoli, e con il quale mi piaceva tanto dialogare a suon di grugniti. Chiudevo gli occhi e mi tappavo le orecchie con le mani per non sentire.


Lì ho assistito al convulso agitarsi delle galline alle quali era già stato tirato il collo, ma che continuavano a muoversi per un bel po’, roteando per terra, e io ero terrorizzata e sgomenta nello stesso tempo. Una volta, correndo – correvo sempre – nell’aia, ho inavvertitamente schiacciato un pulcino. L’ho guardato rotearsi, anche lui, con gli occhietti puntuti fuori dalle orbite e poi afflosciarsi giù dopo avere pigolato come un disperato. Non ho dormito per giorni e giorni dal rimorso.


La sera il ritorno è come sempre un po’ mesto; ecco il viale sotto la vecchia casa dei miei nonni e gli alberi che hanno raccolto tutte le voci ora in silenzio e la torre con la sua luce che sa di magia nel cielo ormai blu scuro.


Non ho più voglia, a Pisa, di vedere il film programmato, che racconta della bellezza della terra e della vita. Ripiego per un altro, uno che parla di un bambino disamato e dei suoi capelli crespi: se diventassero lisci la sua mamma, forse, lo amerebbe come ama il fratellino bizzoso e lo bacerebbe e carezzerebbe come fa con lui.

Pelo Malo, Mariana Rondòn 2013
Sono contenta della mia scelta: si addiceva di più, questo bel film, alla mia giornata e ai pensieri che l’avevano attraversata. Eccomi sulla strada di casa quando la giornata sta per chiudersi. Incrocio, di tanto in tanto, in direzione opposta alla mia, gli ultimi viaggiatori da Lucca comics, colorati e allegri. Sono tre giorni che li osservo, anche affacciata al terrazzo che guarda proprio l'ingresso della Stazione, andare e tornare chiassosi e spesso mascherati. Da alcuni anni non ci vado, ma forse il prossimo mi organizzerò anch’io, chissà; mi piacerebbe. Continuo il mio cammino verso casa e li guardo che ritornano a frotte, ridendo nella notte; hanno in mano le buste con ciò che hanno scovato tra gli stand e fra un gruppo e l’altro c’è l’intervallo di un grande vuoto e silenzio nel quale mi sembra che i miei passi, anche se indosso le scarpe da tennis, risuonino come se avessi i tacchi alti. Un passo dopo l’altro, avanti.