sabato 23 agosto 2014

Panico a teatro, ieri sera: dal pianto al riso e ritorno.


Bozzetto di Adolf Hohenstein per la prima assoluta di Bohème, al Teatro Regio di Torino, nel 1896.
Ancora poco e Mimì morirà, non senza avere dichiarato, finalmente, quant’è grande il suo amore che è grande come il mare, profondo e infinito…

Bozzetto per il costume di Mimì, Adolf Hohenstein, 1896
Ecco, però, che il direttore  si ferma e con lui la musica e i cantanti, sul palco, si immobilizzano per un tempo che sembra irreale. Colline ha già detto addio alla sua vecchia zimarra e noi siamo arrivati  quasi al culmine del pathos, incoraggiati anche dalla bellissima scenografia e dalla regia attenta di Ettore Scola.

Colline d'epoca in una cartolina (sempre d'epoca)
Stupore tra gli spettatori. Che sarà? Un attacco di panico del direttore? Il brusio diventa ben presto rumore e quindi si trasforma in un paradossale cacciucco di fischi e applausi; e di battutacce alla toscana, nella platea immensa, da più di 3000 posti, che credo gremita, in buona parte, da non toscani.

Cartolina d'epoca stampata da Ricordi, primi del 900

Ma ecco che  entrano in scena quattro o cinque signori, vestiti in blu e gallonati con degli scudetti e altre insegne sulle maniche e forse anche altrove (mi sono scordata il binocolo), che portano, come fosse un rito di processione solenne, un grandissimo telo di nylon e si avvicinano al centro della scena. 

Altra cartolina della serie stampata da Ricordi, primi 900.

Tutti e 3000 e più, attoniti, fissiamo Mimì che si alza, come una resuscitata, dal suo letto di agonia e a piccoli passi svelti e graziosi esce di scena. Che sarà? Un "insolito vigor", prima della morte, come capita a Traviata? Escono subito dopo di scena anche Rodolfo e gli altri, mentre i bluvestiti&gallonati portatori di nylon depongono con solenne lentezza tale velo, di materia non nobile, sulle coltri e i cuscini e si allontanano anch’essi. Finalmente ci viene annunciato che si tratta di aspettare per essere sicuri che non piova, dato che sembra esserci una minaccia. Guardiamo il cielo…Mah, eppure non piove...


Poi, ecco che il palcoscenico si anima di nuovo. Ritorna Mimì, si sdraia per fare la moribonda e il pubblico (e anch’io) ride e allora lei, spiritosa, fa un cenno di saluto - elegante -  con il braccio alzato, poi si accascia, avvolgendosi di nuovo nei sintomi della tisi che la consuma. Rodolfo la copre e anche lui si immedesima di nuovo in se stesso e si inginocchia al capezzale dell’amata.


Ma come si fa, ora, a ricreare il pathos? Ormai è tutto rovinato! Invece no. Mimì muore come al solito, ma non prima che Rodolfo le sussurri che è bella ancora, bella come un’aurora e lei gli risponda che ha sbagliato il raffronto e che, caso mai, potrebbe essere definita bella come un tramonto.



E noi, e anch’io, tutti lì con gli occhi lucidi che non riescono, almeno i miei, a trattenere le lacrime (catartiche, ma silenziose, tranquilli) quando Rodolfo si china su Mimì che non può più sentirlo e poi si rialza e la chiama ancora, inutilmente, urlando al cielo la sua rabbia e il suo dolore.


Il pianto e il riso sono legati in un nodo inestricabile e sono davvero sciocchi quelli che li confinano in territori del tutto separati. In quel nodo, che non bisogna cercare di disgiungere, sta, forse, il segreto della felicità.


giovedì 21 agosto 2014

Daniza, King Kong e la stupidità umana


 
King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933
Lo so, ci sono le guerre e molto altro di assai più grave. Io, però, non ragiono così. Non ho mai fatto gerarchie tra esperienze positive; e da piccola disprezzavo chi mi chiedeva se volevo più bene al babbo o alla mamma. Allo stesso modo mi comporto di fronte alle esperienze negative e non valuto il grado di crudeltà in termini di spargimento di sangue, con l’equivalenza del tipo “più morti uguale più grave”. 

King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933
Valuto, invece, il senso profondo di ogni esperienza che reputo negativa. In sintesi: il granello di sabbia, per me, è un pezzo di deserto perché è ciò che ne rende possibile l’esistenza.

Credo che la vicenda dell’orsa che difende i suoi cuccioli e del cercatore di funghi che si apposta dietro un albero per osservarli, violando le più elementari regole di comportamento di fronte alla fauna selvatica, sia una metafora di molto altro. 
King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933
E' in gioco il nostro avventato ed egocentrico rapporto con la natura, ridotta a oggetto di predazione e consumo. Però la vicenda riguarda anche un’altra cosa, che tocca le mie corde più intime e sensibili e che deriva da una banale constatazione: il cercatore di funghi può raccontare la sua versione della storia e lasciarsi persino intervistare dai media, ma Daniza no. 


King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933
Ci sono interi universi di silenzio e sono, in genere, universi perdenti. Uno, per esempio, è abitato dai bambini: il termine “infanzia” allude proprio alla loro imperizia nell’usare le parole. Un altro è abitato da animali di specie diversa da quella umana. E altri ancora sono abitati da persone che non possono usare le parole o possono servirsene solo in maniera inefficace per comunicare i propri sentimenti. Mi riferisco a chi è affetto da malattie neurologiche degenerative legate all’età, ma anche a chi soffre forme di psicosi grave o di autismo. Prima dell’attuale professione ho lavorato con questi ultimi soggetti, in particolare con quelli autistici, che sono per lo più mutacici o usano in maniera del tutto soggettiva e inefficace il linguaggio verbale. 

King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933
Ho imparato che è possibile, di fronte a quanti non hanno parole, prestare loro le nostre per difenderne i diritti. Non in senso paternalistico, per renderli ancora più dipendenti, ma fungendo un po' da traduttori, per noi stessi e per gli altri. E così ho scoperto che si può dare un senso alle loro modalità comunicative, per quanto siano diverse e più complesse delle nostre semplici stringhe di sillabe. Bisogna mettersi in ascolto attivo e osservare, con umiltà e per un po’ spogliandoci della sicurezza che ci è data dai nostri alfabeti alfanumerici.

King Kong, di Merian C. Cooper  e Ernest B. Schoedsack, 1933


Io sto con Daniza anche perché non ho mai sopportato che ci fossero degli universi arroganti e loquaci, quelli di chi decide, e degli universi perdenti, quelli di chi è silenzioso. E anche per questo  King Kong, nel film del 1933 (quello classico), mi commuove. 

La foto più famosa di Daniza: mentre allatta i suoi due cuccioli

venerdì 15 agosto 2014

Una storia vera, di gatti e umani.


Corto Maltese con gatto
Per motivi che non sto a raccontare mi è riaffiorata alla mente una vicenda che mi ha coinvolto molto, qualche anno fa, mentre mi trovavo da mio fratello. Una sua vicina si era sposata con un uomo che non voleva gatti fra i piedi  e andando a vivere da lui aveva lasciato fuori casa la sua gatta pur sapendo che sarebbe stata indifesa di fronte ai pericoli della vita all’aperto.

Bob Dylan con gatto

La gattina si faceva viva per mangiare i croccantini dati per lei dalla ex padrona ai vicini e poi spariva chissà dove. Proprio un giorno in cui ero là la sentimmo piangere, giù, al portone del condominio. La raccogliemmo in condizioni disperate. Era stata azzannata da un cane, si capiva.

Henri Matisse con gatti
La portammo dal veterinario che la ricucì, le tagliò la parte di coda ormai in cancrena, ci dette le cure del caso e qualche speranza. La portammo in casa e accudimmo per due giorni ed era tutta fusa e gratitudine. Riuscì persino a trascinarsi sulla lettiera per non sporcare.


Kandisky con il suo gatto

Poi, all'improvviso, una crisi epilettica dietro l'altra e  morì in pochissimo senza lasciarci il tempo di fare qualcosa. Piansi, allora, e non solo per la gattina, ma anche per l'ennesima prova di dove può arrivare il servilismo femminile rispetto a un uomo. Perché un conto è accordarsi con la persona con cui si va a vivere di non prendere animali in casa, un altro conto è chiederle di abbandonare quello che vive già con lei da tempo e fino ad allora è stato amato e coccolato.

Audrey Hepburn e George Peppard con il gatto "Gatto",
in Colazione da Tiffany
Io, un uomo così, non l’avrei mai sposato; non mi sarei fatta neanche offrire un caffè al bar! 
C’era spettacolo a teatro, quella sera, mio fratello doveva suonare e il sole stava ormai tramontando. Così siamo usciti con la gattina sistemata come meglio potevamo in una scatola e noi già in abiti da sera. Io portavo la pala, con la mia gonna lunga e i tacchi alti e le lacrime maltrattenute.

Corto Maltese con gatti (sempre da "Favola di Venezia")
Cercammo un bosco. La scatola, la pala, la gonna inadatta e i tacchi peggio...; eppure, la situazione non sembrava neanche comica. Dopo cinque o sei anni io me la ricordo ancora, quella gattina, con il suo bel manto rosso, gli occhi grandi, tutta fusa. E pensando alla servizievole sposa che l’aveva abbandonata al suo destino, mi chiedo se sarà stata felice, nella sua condivisa scelta di egoismo. Dentro di me ne dubito, perché credo, invece, che amore e egoismo funzionino come un boomerang. E credo nelle catene bio-affettive che possono unire i viventi al di là della morte stessa.


Stanley Kubrick con gatto
Per questo accoglierò in casa una nuova micia, tra pochi giorni. Non per sostituire la mia Margot, ma per continuare a far vivere il legame di affetto che per un tempo troppo breve ci ha unite. 

Lenin con gatto

Quando rientriamo Ulisse corre alla porta e guarda alle nostre spalle. Non sono in grado di provarlo, ma sembra che cerchi qualcuno. Credo che si aspetti che Margot ritorni.

Lisa Simpson con il gatto
Quando vedrà la nuova micia si arrabbierà, le soffierà, farà l'offeso per un po' e forse anche lo sciopero della fame, come quando arrivò Margot. Poi si lascerà andare e diventeranno amici. 



lunedì 11 agosto 2014

Il cielo, una sera.



Domenica. Sono arrivata in una ridente cittadina balneare alle 11.45 e ho cominciato a cercare il parcheggio. Niente vicino, niente a 500 metri, a 800, a un chilometro…Ci sarebbe il garage, ma l’entrata è storta, in discesa, irregolare e stretta. Per di più ci sono le macchine parcheggiate sull’altro lato della strada e rinuncio. Alla fine parcheggio molto lontano e per un terzo di auto mi dispongo sull’avanzo del posto occupato da un’altra, per due terzi dove non si potrebbe. La ricerca dura il doppio del tempo impiegato ad arrivare.


D'estate, qui, tantissimi si trasferiscono in un garage o in un casotto in giardino, s'intende docciabidéwaterfornellomuniti, ma per solito senza finestre, per affittare l’appartamento ai villeggianti. Però, ora, non c’è casa che non esponga il cartello con scritto “Affittasi nei mesi estivi”; e siamo al 10 di agosto.



E’ la crisi, ma sono anche i prezzi alle stelle di questi affitti estivi e l’uggia, forse, di questa anarchia arraffatrice che si esprime nel rosario dei cartelli di passo carrabile ai quali si affiancano quelli, chissà se legali, con scritto “proprietà privata non parcheggiare davanti” (???) e poi gli oggetti atti a impedirlo dove non ci sono cartelli: biciclette, tricicli, il cane di casa, una scala, il tosaerba, la nonna in poltroncina come un soldato di guardia nella sua garritta, un tavolino pieghevole aperto; insomma: qualsiasi cosa atta a occupare lo spazio.


Lascio la mia auto al suo destino, sperando che i vigili non passino di lì. Per tutto il giorno non faccio altro che incontrarne, a piedi o in auto, seguiti da un carro attrezzi carico  o in attesa di fagocitare qualche malcapitata vettura. Incrocio le dita e metto in atto tutti gli scongiuri possibili, a parte, s’intende, quelli tipicamente maschili di toccarsi gli attributi cosiddetti nobili, che ovviamente non possiedo.


Vado in pineta. Solite scene di picnic familiari chiusi. Posso testimoniare, negli anni, che fin dal mattino presto i tavoli di legno vengono presidiati da un componente della famiglia che non ama il mare e che sta lì a fare la guardia a panieri di roba in attesa che gli altri (e lui con loro), come cavallette, facciano fuori il frittame e il lasagnato. Tutta roba che rimarrà, come un macigno, a occupare i loro stomaci fino al crepuscolo.


Nel dopopranzo, infatti, li vedi sdraiati e non molto felici in balia del frinire delle cicale. Resi immobili dall'immane fatica digestiva muovono solo la mano, di tanto in tanto, per scrollarsi di dosso qualche formica in cerca di briciole. La pineta sembra un enorme condominio con le pareti di vetro. Nessuna socializzazione, nessun piacere di essere con gli altri, ma, anche in questo caso, solo la frenesia ansiosa dell’occupazione di suolo.


Poi, a sera, torno al parcheggio e vedo da lontano che l’auto, miracolosamente, c’è ancora. Allora mi accorgo del cielo. E’ bellissimo! E' tutto un tripudio di di rosa e celeste, di grigi e di varie gamme di luce. Anche per tutto il viaggio non faccio altro che guardare le nuvole, sempre più scure mentre si fa notte. 



La musica, il nastro grigio dell’asfalto e lassù, lo spettacolo. Vedo infatti passare nel cielo treni, greggi, orsetti, pesci, mongolfiere, delfini e persino uno struzzo; tutti di cotone, creati da chissà quale artista. Mi sento bene e canto anch’io, usando impropriamente la musica di Prokofiev, che dalla radio inonda l'abitacolo, come fosse un karaoke e inventando parole a caso, mentre guardo i cirri ormai neri nel cielo blu.