domenica 6 aprile 2014

Noi schiavi, noi tiranni.



Sono ancora emozionata per lo spettacolo che ho visto oggi pomeriggio: Ubu Roi di Alfred Jarry nell'adattamento e per la regia di Roberto Latini, a più di cento anni dalla sua pubblicazione. Qui il link.  Andare a teatro dovrebbe essere un po’ come giocare, come scrivere una poesia, come sognare.


Cioè si dovrebbero infrangere le cornici spazio-temporali consuete, le concatenazioni logiche, le gerarchie di significato e di importanza che tanto ci rendono difficile la vita quando diamo loro troppa credibilità. Dovremmo poterci sedere tra oggetti ed esseri viventi  accostati in maniera analogica, giustapposti, proprio così come facciamo da bambini quando guardiamo il mondo. E come continuiamo a fare da adulti, nella dimensione interna che si esprime nelle nostre fantasie e desideri, ma ancor più liberamente a livello onirico, quando ci lasciamo andare e allentiamo ogni capacità riflessiva e razionale.






Dormendo e sognando siamo una cosa sola con il letto e le coperte, con le braccia o il corpo di chi ci dorme accanto, con le pareti e il cielo stellato là fuori. Nel sonno e dentro di noi, nella dimensione psichica, siamo una cosa sola anche con l’universo intero, respiriamo con le piante e scorriamo con l'acqua dei fiumi e del mare; e non ci spostiamo più in maniera finalistica e per segmenti lineari, da un punto di partenza a uno di arrivo, ma ci muoviamo in cerchio, come la terra e tutti i pianeti e come gli attori facevano sulla scena. Ripercorrevano infatti circolarmente i propri passi a volte pedalando su una grottesca bicicletta a ruote piccole, tutta tinta di bianco, a volte trascinando i piedi o muovendosi in maniera caricaturale a passo di danza, con gesti esasperatamente manierati. 







Parlava del potere, lo spettacolo, in tutte le sue sfaccettature e i suoi volti. Il potere del tiranno, non dissimile nel senso da quello del padre sul figlio o di un coniuge – moglie o marito è lo stesso – sull’altro. Maschere uguali ai volti e oggetti simbolo di potere presentati nel lato ridicolo che ormai non sappiamo più leggere come tale, una scenografia di per sé povera, ma ricca di simbolismo, insieme alla musica, ora drammatica ora trionfale, ma sempre in maniera ironica, ci hanno trascinato in un gorgo di paesaggi grotteschi dell'anima lasciandoci smarriti e positivamente disorientati.



Forse ci siamo resi conto, ridendo un po' amaramente, di come sia facile lasciarsi ingannare dai pennacchi colorati e dai palloncini, dalle medaglie, dalle cornici di falso oro e dalle impalcature sceniche salendo sulle quali, e brandendo un megafono o un microfono, qualsiasi insignificante ometto appare come un gigante dalla voce potente e incute terrore. Ma il potere non è mai unidirezionale, come diceva il filosofo noto. Il potere si ramifica in tanti micropoteri e nessuno è libero. Il tiranno è schiavo a sua volta del riconoscimento che deve avere dai servi, ma anche della sua ambizione che lo porta  a spargere sangue e a seminare la morte; e delle sue bugie, che lo rendono ineluttabilmente solo al centro della terra e della scena, con il suo naso da Pinocchio che a volte si trasforma in quello dell'infelice Cyrano destinato a morire perché il suo amore sia finalmente ricambiato.


E gira il tiranno, gira, gira, gira avvolto su se stesso e sulla propria catena dalla quale gli è impossibile liberarsi perché è una protesi del suo stesso corpo; un cordone ombelicale paradossale, perché non molle, non fluttuante e sinuoso, ma duro della durezza del  metallo, rigido  e pesante. Uno dei momenti più belli dello spettacolo, verso la fine, è stato quello nel quale il tiranno pontifica in mezzo ai flutti generati muovendo un enorme drappo di raso, rosso come il sangue, mentre la luna, alta nel cielo, guarda indifferente, fredda e lontana. E’ il sangue dell’insensatezza distruttiva delle guerre, ed è il sangue del desiderio di vendetta che necessariamente riproduce all’infinito l’esperienza di dolore dalla quale crediamo, invece, che possa liberarci.


Si esce un po’ storditi, molto emozionati e dopo un po’, a distanza, si diventa anche pensierosi. Si pensa, preoccupati, che troppi buttano via l’esistenza dietro pennacchi e lustrini, medaglie di cartone tinte d’oro e rancori di cui si è persa anche l’origine. Poveri noi, che a volte siamo schiavi, a volte, all'opposto, ci facciamo tiranni perché crediamo che sia l'unico modo per non essere schiavi! Questo si pensa. E si desidera ritornare bambini per dire ancora una volta che il re, davvero, è nudo e non ha alcun potere su di noi e noi non vogliamo averlo su nessuno. Che vogliamo essere liberi di amare e di lasciarci amare, di inventare nuovi giochi e passare la vita a condividerli invece che a distruggerli.

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