sabato 29 marzo 2014

Il silenzio degli universi perdenti


Questa e le successive immagini sono tratte 
da "Il nastro bianco" di Michael Haneke
Ho scritto qualche giorno fa alcuni pensieri in merito alla vicenda del bambino di Massa picchiato a sangue dalla madre a scopo educativo. I bambini non sono una proprietà dei genitori e le botte non hanno mai educato nessuno se non alla paura e alla menzogna. Mi è venuto in mente, al proposito, un film molto bello sull’argomento, “Il nastro bianco” di  Michael Haneke. Trascrivo le considerazioni che tre anni fa, quando l’ho visto, mi aveva suscitato, consigliando di cercarlo. Cosa che farò anch'io (non so quando) per rivederlo.


23 gennaio 2010
Sono convinta che sia possibile parlare di politica anche indirettamente ed è quello che vorrei fare in questo caso. 
Il sole caldo di stamani, senza nuvole in agguato e compromessi con il grigio, rende più difficile commentare il bellissimo film che ho visto ieri sera. A quel film, infatti, si addice la notte piena di ombre e sussurri o di paure trattenute nelle pieghe più segrete dell’anima. Molti spettatori ne sono usciti con la faccia delusa e rancorosa; al termine ho anche scambiato qualche commento con amici incontrati per caso, ma non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Forse bisognerebbe raccomandare, nelle brevi recensioni critiche di un film, di sceglierlo in base ai propri sentimenti del momento.



A questo film, per esempio, si confanno il silenzio di parole e la tristezza e io, ieri sera, ero da sola ed ero triste; questa coincidenza, forse, mi ha reso quasi naturale rompere la barriera invisibile che sempre si erge tra lo spettatore e lo spettacolo, per entrare dentro la storia, nel 1913, cioè alla vigilia della prima guerra mondiale, in un piccolo paese del nord della Germania; e per vestirmi anch’io di quegli abiti scuri, punitivi e larghi avvolti su corpi bambini o sulla magrezza esasperata e goffa di quelli adolescenti.



Così ho camminato, anch’io, con i loro piccoli passi incerti e timorosi, prendendo da un ripostiglio buio la ferula con la quale essere brutalmente frustata per una marachella da niente, per una parola di troppo, per uno sguardo impudente. E con loro ho subito, sequenza dopo sequenza, la crudeltà di un amore genitoriale malato e ho sgranato gli occhi pieni di domande sul perché dell’esistenza senza riceverne alcuna risposta; da nessuno.



Bianco e nero, come nel migliori film di Ingmar Bergman, e paesaggi innevati e solitari, bellissimi e gelidi, cornice impietosa delle miserie umane, dei segreti indicibili fatti di violenza riposta tra le pareti discrete della casa, dietro le porte chiuse, tra le trine candide e leggere cucite attorno alle cune e al loro prezioso tesoro di piccoli bambini prigionieri delle proprie fasce; e mobili pesanti, imponenti e scuri, indizio ingannevole di sicurezza e di solidità degli affetti.



I merletti delle donne compaiono spesso nel film e la telecamera si sofferma su di loro e li evidenzia, o su mani ancora bambine che li tessono con la testa china sul petto, e altre ne lascia immaginare, di fanciulle e di donne che scrivono la propria rabbia su pagine di stoffa o di pizzo, con il filo e l’ago, con l’uncinetto o il chiacchierino o il tombolo, lasciando uscire dalle dita la propria silenziosa e vana protesta, la voce di un universo femminile perdente al quale neanche il lamento è più concesso, ma solo la muta rassegnazione.



Il film, infatti, ci accompagna per mano all’interno degli universi perdenti di chi non ha parola: i bambini, i disabili (c’è un personaggio dismorfico e balbettante in un proprio gergo incomprensibile che quasi sempre viene chiamato dal narratore fuori campo “il bambino ritardato”) e le donne prima che diventino troppo adulte e quindi si facciano complici dei propri aguzzini nella sopraffazione di altri più deboli; in questo caso i figli.



Lo sguardo impietoso del regista si sofferma sulla genesi delle future figure di nazisti mentre ancora essi stessi sono vittime di un’educazione improntata alla gerarchia e all’obbedienza assoluta che lega anche i genitori, carnefici e vittime insieme; consenzienti; complici della figura del Barone, signore del luogo che arriva a sostituirsi persino al prete per rivolgere un sermone-minaccia agli attoniti fedeli raccolti per la funzione domenicale.



Il Barone, il Pastore, il Medico e l’Intendente determinano le regole di convivenza di una comunità chiusa e gerarchica che finisce per diventare - e noi spettatori lo pensiamo senza avere il coraggio di dircelo - la spietata rappresentazione di qualcosa di più universale della gestazione dell’esperienza nazista; qualcosa  che in qualche oscuro modo ancora ci riguarda.
 



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