sabato 25 gennaio 2014

Sono nata al termine della notte e in un luogo, aspro, di vento.


Mi fa un certo effetto, forse mi commuove anche un po’. Mi procura un’emozione forte e inaspettata, alla fine dell’incontro di lavoro, venire a sapere che proprio la stanza nella quale ho passato parte del pomeriggio una volta era la neonatologia e dunque che sono nata proprio lì.

Notte estiva - Dintorni di Pisa, 2012
Sono venuta al mondo in estate e quasi al termine della notte, quando il nero trascolora nel bruno impercettibilmente già venato di rosa; ed è stato in questo luogo che, certo, non ricorda più un ospedale se non per le alte volte a crociera e per gli androni lunghi. Non c’ero più entrata da quando, negli anni ’80, era stato trasferito nel vecchio, enorme agglomerato della cittadella manicomiale che era ormai in gran parte dismessa e ridotta a un paio di padiglioni.
A tratti, mentre ascolto o parlo, ho l’impressione quasi di avvertire l’odore pervicace di muffe ancestrali, di minestrine nauseanti, di scodelle di pallida purée e di mele cotte languenti nei loro letti di zucchero bagnato e bucce sconfitte. Non posso ricordare niente, eppure mi pare familiare tutto; così come all’esterno riconosco amiche e quasi dotate di anima le pietre; il tufo, l’arenaria e la selagite estratta dalle colline del paese vicino, quello dove ho vissuto con i miei genitori.

Una foto di suore vincenziane e orfanelli, trovata in rete.
C’erano le suore cappellone in questo ex ospedale di Santa Maria Maddalena, attivo fin dal XII secolo e ora vestito con i colori del restauro rispettoso della storia e di buon gusto. Le suore cappellone: così le chiamavano quando ero bambina, ma in realtà si trattava di suore vincenziane. Erano quelle con larghe ali bianche e inamidate, a cornice del volto, che se capita oggi di incontrarne una si ha l'impressione di essere stati all'improvviso catapultati in un film di Fellini.
C’erano anche i bambini abbandonati, da qualche parte, quelli che dopo il parto le madri erano costrette a lasciare alle suore vincenziane - cappellone per qualche segreta crudeltà della vita o semplicemente per povertà. E quei bambini stavano chissà dove, dentro l’ospedale di Santa Maria Maddalena, ma c'erano di certo perché ricordo benissimo di averlo sempre saputo, quando anch’io ero bambina. Forse qualche volta li ho intravisti; forse ho sentito, entrando nell’ospedale per una visita, un intrecciarsi di voci nel gioco. Oppure si tratta solo di fantasie che ora, a distanza di anni, non so più distinguere dalla realtà. Però, sul retro dell’ospedale, il vicolo degli abbandonati c’è sempre e ieri ne ho fotografato la targa.

Volterra, 24 gennaio 2014
Ricordo il nonno materno, ricoverato a lungo lì, e le stecche di sigarette che mia madre passava di soppiatto all’infermiere perché avesse qualche riguardo in più per lui; perché facesse quello che in realtà sarebbe stato comunque suo dovere fare. Era quasi una regola, allora, e tutti passavano, lesti, stecche o pacchetti di sigarette all'infermiere o al portiere, anche per entrare in orari nei quali la visita non era consentita. Rivedo la nonna paterna, con i tubi impietosi dei cateteri che le salivano su per il naso, mentre riusciva a malapena ad aprire un poco gli occhi per guardarmi e mi teneva la mano nella sua e poi lisciava la coperta bianca. Ero un’adolescente acerba e non capivo, né immaginavo, che sarebbe morta di lì a pochi giorni.

Ex Ospedale di Santa Maria Maddalena, Volterra.
C’erano delle tende che dividevano i letti, nella grande corsia, per creare un’illusoria sensazione di intimità. Nel mio ricordo le rivedo color verde anestesia, ma chissà come erano realmente! A volte venivano tirate intorno al letto quando un paziente moriva, per preservare da occhi morbosi il suo corpo in attesa di portarlo via. Ricordo che mi turbavo, che provavo un sentimento appiccicoso, vischioso e ingombrante e che tentavo invano di cacciarlo. Era un misto di pena e tenerezza, di malinconica rassegnazione, di insopportabile ragionevolezza e di velleitario rifiuto del principio di realtà.
Le suore camminavano leste, spostandosi di letto in letto in un frusciare solerte di sottane e muovendo l’aria tutt’attorno, con le larghe tese bianche del copricapo strano che le faceva somigliare a uccelli; gabbiani o aironi, forse.

Notte di luna piena - Dintorni di Pisa, 2012
Uscendo, nel pomeriggio inoltrato, riconosco il vento pungente, aspro, privo di riguardo che ho sempre tenuto in mente. E' lui, unico e inconfondibile. E' il mio vento di adolescente. Un vento adatto a uscite solitarie e arrabbiate, quando hai bisogno di qualcosa che ti sfidi e forse anche ti offenda per ritrovare la dignità e la voglia di resistere a tutto ciò che ti pare ingiusto o insensato. 


John W. Waterhouse, Borea, 1903
Ero esasperatamente ribelle e oppositoria, da ragazzina, e forse era proprio colpa di quel vento; deve essere proprio così; deve essere stata colpa del vento di Volterra.
Volterra non è solo il luogo dove sono nata, dove ho passato molte estati dai nonni e le domeniche dell’infanzia e dell’adolescenza, ma è anche la città nella quale ho frequentato il liceo negli anni di contestazione più dura.
A Volterra, ciò che altrove è di solito in ombra, mi sembrava quasi esibito. C’era, e ancora c’è, il carcere, in alto: una fortezza sinistra che dominava su tutto. Né sarebbe stato possibile ignorare il manicomio, là in basso: un’immensa e brulicante città nella città riposta proprio nel ventre della collina. Al suo posto, ora, c'è il nuovo ospedale civile che l'ha trasfigurata. E poi, poco più avanti, c’era anche l’Istituto detto dei “corrigendi”. Era praticamente un altro carcere, ma per prigionieri minorenni: ragazzi colpevoli di furtarelli e di scippi o di essere soli al mondo e sbandati. Completavano il quadro l’orfanotrofio e il seminario.
Tante volte ho pensato a quanto debba avere influito, nel mio modo di essere, questa particolare fisionomia di Volterra. Perché poi ci sono anche i calanchi, bellissimi e spaventevoli insieme, ai miei occhi di bambina; i calanchi che si affacciano all'improvviso nel vuoto e quasi formano uno sbarramento naturale, una linea di cesura rispetto al resto del mondo

John W. Waterhouse, La folata di vento, 1902
Ci sono conchiglie fossili impresse sulle pietre dei muretti e degli scalini sui quali tante volte, nel tempo, mi sono seduta.  E stanno lì, credo, secolo dopo secolo e millennio dopo millennio, per ricordare malinconicamente un’origine lontana e acquatica, un mondo perduto e misterioso, come quello nel quale ciascuno di noi, per breve tempo, ha abitato, prima di aprire gli occhi e guardare il cielo e la terra.

2 commenti:

  1. Mi accorgo ora che nello scrivere sono usciti fuori più i ricordi delle perdite che quelli delle occasioni di gioia legate a questo ospedale dismesso. Eppure, proprio ora, sto sorridendo nel ricordare la prima volta in cui ho visto l'uno e l'altro dei miei fratelli maschi, entrambi nati qui. Mia sorella, invece, è nata altrove, ma questa sarebbe un'altra storia...

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  2. Grazie, Antonella.

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