martedì 31 dicembre 2013

Confini e fusionalità: in amore o altrove.


Quando ci abbracciamo, quando ci baciamo, non possiamo fare a meno di chiudere gli occhi.

Edvar Munch, Il bacio, 1892
Nessuno ce lo insegna; si tratta di una reazione spontanea e nello stesso tempo quasi involontaria. I
n quel momento non vogliamo percepire nessuno dei confini che ci definiscono, ma il loro dissolversi. Ci lasciamo avvolgere e avvolgiamo a nostra volta qualcuno, con questo nostro doppio organo-ponte che sono le braccia e le mani. Come un ponte, infatti, il braccio e la mano possono colmare una distanza o invece ritrarsi e crearla. 

Edvar Munch, Il bacio, 1895

La nostra vita è declinata tra la consapevolezza dei confini e il loro ritmico confondersi, come accade prima di addormentarci, quando il buio nasconde il profilo dei monti e non ci sono più orizzonti a dividere il mare dalla terra.

Pisa, piazza San Paolo a Ripa d'Arno, in una notte piuttosto fonda 
La notte copre con il suo largo mantello tutto ciò che con la luce era definito da un contorno, cioè da un confine: le montagne, gli alberi, le case e ogni vivente.


Notte estiva - Pisa, 2013
Quando è notte ci lasciamo andare al silenzio e chiudiamo gli occhi fino a perdere consapevolezza nel sonno, aiutati dal buio. I confini del nostro corpo e della nostra psiche, però, si possono dissolvere anche in pieno giorno, per esempio a contatto con la natura, quando più acutamente ne percepiamo il fascino e il mistero. Succede quando ci sdraiamo sulla sabbia, chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cullare dal rumore della risacca. Oppure può capitare camminando, se all’improvviso cogliamo un odore che ci porta altrove nel tempo o se, magari, ci attrae una luce particolare e allora ci fermiamo, come rapiti, a guardare un paesaggio noto quasi lo vedessimo per la prima volta. Mi è successo così proprio pochi giorni fa. Ero con un’amica e parlavamo, ma arrivate sul ponte ci siamo zittite, sorprese dalla visione di una città altra, tutta dorata e calda nonostante fossimo alle soglie dell’inverno. D’oro mi parevano anche l’acqua del fiume, il cielo, le vesti delle donne, i gabbiani, le spallette e le pietre delle case. E anch’io, dentro e fuori, mi sentivo come pervasa di uno speciale pulviscolo dorato.

Qualche pomeriggio fa, dal Ponte di mezzo - Pisa

Abbiamo bisogno di definire la nostra identità psicofisica e facciamo ricorso all’organo che delimita lo spazio che occupiamo: la pelle. E tuttavia acquisiamo la sensibilità epidermica, cioè del contenitore che tiene insieme le parti del nostro corpo, attraverso le carezze che rappresentano un altro modo di dissolvere. Appena nati, infatti, la nostra sensibilità è ancorata alla dimensione viscerale profonda e solo l’essere toccati, massaggiati, stropicciati e carezzati ci permette di investire gradualmente sull’aspetto di superficie. Le carezze formano la consapevolezza della pelle, mentre quelle psichiche ci donano l’identità. 

Antonio Canova, Le tre Grazie (particolare), 1814-17

Alcune persone non riescono a rompere mai i propri e altrui confini mentre altre, all’opposto, non sono capaci di definirli e rispettarli. C’è anche chi li rompe per un po’ e poi scappa via nella propria tana di abitudini. E poi c'è chi si lascia invadere in ogni minimo spazio di esistenza e chi, invece, mette una gran quantità di paletti e recinti tra le proprie relazioni e spazi: qua l’amore, là il lavoro; qua la genitorialità, là l'amicizia; qua il divertimento, là la fatica e così via. 
Sono convinta che per stare bene sia necessario imparare a muoversi continuamente tra il qua e il là, tra l’essere da soli e l’essere insieme, tra dedicarsi a qualcosa, a qualcuno o invece lasciare che persone ed esperienze importanti della nostra vita si intreccino,  mentre noi ci riposiamo dalla fatica di voler mettere tutto in armonia e il disordine non ci fa più paura. 

Ci sono strane case, nel bosco, dove il buio e la luce
e tutti gli opposti si incontrano - (la foto è di due o tre estati fa)

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