Quando ci abbracciamo, quando ci baciamo, non possiamo fare a meno di
chiudere gli occhi.
Edvar Munch, Il bacio, 1892
Nessuno ce lo insegna; si tratta di una reazione spontanea e nello stesso
tempo quasi involontaria. In quel momento non vogliamo percepire nessuno dei confini che ci definiscono, ma il loro dissolversi. Ci lasciamo avvolgere e avvolgiamo a nostra volta qualcuno, con questo nostro doppio organo-ponte che sono le braccia e le mani. Come un ponte, infatti, il braccio e la mano possono colmare una distanza o invece ritrarsi e crearla.
Edvar Munch, Il bacio, 1895
La nostra vita è declinata tra la consapevolezza dei confini e il loro ritmico confondersi, come accade prima di addormentarci, quando il buio nasconde il profilo dei monti e non ci sono più orizzonti a dividere il mare dalla terra.
Pisa, piazza San Paolo a Ripa d'Arno, in una notte piuttosto fonda
La notte copre con il suo largo mantello tutto
ciò che con la luce era definito da un contorno, cioè da un confine: le montagne,
gli alberi, le case e ogni vivente.
Notte estiva - Pisa, 2013
Quando è notte ci lasciamo
andare al silenzio e chiudiamo gli occhi fino a perdere
consapevolezza nel sonno, aiutati dal buio. I confini del nostro corpo e della nostra
psiche, però, si possono dissolvere anche in pieno giorno, per esempio a contatto con la natura, quando più acutamente ne
percepiamo il fascino e il mistero. Succede quando ci sdraiamo sulla sabbia,
chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cullare dal rumore della risacca. Oppure può capitare camminando, se all’improvviso cogliamo
un odore che ci porta altrove nel tempo o se, magari, ci attrae una luce particolare e
allora ci fermiamo, come rapiti, a guardare un paesaggio noto quasi lo vedessimo
per la prima volta. Mi è successo così proprio pochi giorni fa. Ero con un’amica e
parlavamo, ma arrivate sul ponte ci siamo zittite, sorprese dalla visione di una
città altra, tutta dorata e calda nonostante fossimo alle soglie dell’inverno. D’oro mi parevano anche l’acqua del fiume, il cielo, le vesti delle donne, i gabbiani, le spallette e le pietre delle case. E anch’io, dentro e fuori, mi sentivo come pervasa di uno speciale pulviscolo dorato.
Qualche pomeriggio fa, dal Ponte di mezzo - Pisa
Abbiamo bisogno di definire la nostra identità psicofisica e facciamo
ricorso all’organo che delimita lo spazio che occupiamo: la pelle. E
tuttavia acquisiamo la sensibilità epidermica, cioè del contenitore che tiene
insieme le parti del nostro corpo, attraverso le carezze che rappresentano un altro modo di dissolvere. Appena nati, infatti, la nostra sensibilità è ancorata alla
dimensione viscerale profonda e solo l’essere toccati, massaggiati,
stropicciati e carezzati ci permette di investire gradualmente sull’aspetto di
superficie. Le carezze formano la consapevolezza della pelle, mentre quelle psichiche ci donano l’identità.
Antonio Canova, Le tre Grazie (particolare), 1814-17
Alcune persone non riesconoa rompere mai i propri e altrui confini mentre altre, all’opposto, non sono capaci di definirli e rispettarli. C’è anche chi li rompe per un po’ e poi scappa via nella propria tana di
abitudini. E poi c'è chi si lascia invadere in ogni minimo spazio di esistenza e chi,
invece, mette una gran quantità di paletti e recinti tra le proprie relazioni e spazi: qua l’amore,
là il lavoro; qua la genitorialità, là l'amicizia; qua il divertimento, là la fatica e così via. Sono convinta che per stare bene sia
necessario imparare a muoversi continuamente tra il qua e il là, tra l’essere
da soli e l’essere insieme, tra dedicarsi a qualcosa, a qualcuno o invece lasciare che persone ed esperienze importanti della nostra vita si intreccino, mentre noi ci riposiamo dalla fatica
di voler mettere tutto in armonia e il disordine non ci fa più paura.
Ci sono strane case, nel bosco, dove il buio e la luce e tutti gli opposti si incontrano - (la foto è di due o tre estati fa)
Non
ho mai voluto imparare a sciare. Mi piacciono le ciaspole, invece, per avventurarsi nella neve con la lentezza che permette di poter godere di un
paesaggio, dei suoi silenzi e odori, liberi di alzare gli occhi al cielo o verso un
intreccio di rami ricamati di bianco.
Corno alle Scale 2008-2009
Questa è una premessa per dire che non posso capire bene il gusto dello sciare fuoripista. Certo, ci sono i paesaggi più belli, nei fuoripista, ma tra velocità e concentrazione tecnica non credo che sciando ci si possa occupare dello sguardo contemplativo sulla natura.
Alpe di Siusi - febbraio 2010
Ora
scriverò qualcosa di impopolare, ma io ritengo che non ci sia nessun argomento
che debba essere oggetto di censura e perciò esprimo il mio pensiero anche su questo. E devo fare una seconda premessa, per chi, leggendomi e non conoscendomi direttamente, potrebbe pensarlo: non sono una persona rigida e non amo le ideologie. Mi auguro davvero che Schumacher ce la faccia e superi il coma, ma non mi interessa se è o no un campione; per me è una persona che è in pericolo di vita e io considero la vita il bene in assoluto più prezioso.
Alpe di Siusi - 2010
Non posso non
pensare, però, che forse una discesa fuori pista, soprattutto quando la neve è fresca e per di più con un ragazzino di quattordici
anni, non deve essere presentata come una specie di dimostrazione di coraggio. C'è un pericolo di emulazione, come dire che è bene, è un atto di coraggio, appunto, scegliere i fuoripista anche in condizioni ancor più sconsigliabili del solito. Fra l’altro l'80%
degli incidenti mortali di montagna si verificano nel fuoripista, spesso con
valanghe provocate dalle stesse vittime. E le notizie di poco fa ci raccontano di altri morti, sempre nei fuoripista, tra i quali un ragazzino di quindici anni.
Alpe di Siusi - 2010
Devo dire che a volte ho intrattenuto
discussioni accese con amici sportivi, chiedendo loro se davvero andare a folle
velocità con una macchina o una moto può essere considerato uno sport o non una
prova ancestrale di sopravvivenza, un po’ come certi riti ordalici nei quali la
divinità mostrava chi era degno e chi no di vivere.
Corvi sul tetto del rifugio - 2010
Qualche anno fa in famiglia avemmo a che fare con
un ragazzino, il figlio di mia sorella, e un incidente grave di moto, che ci fece tutti riflettere un po’
di più quando al CTO di Firenze ci trovammo a condividere la nostra angoscia con quella di tanti altri familiari e amici di giovani-centauri. Il racconto delle emozioni di allora è qui. Perché proprio in quei giorni ci fu un ricovero eccellente, in quella clinica, per un incidente di moto anche in quel caso, e i ripensamenti di quei ragazzi, ingessati e ricuciti, ebbero una brusca impennata in negativo.
E' di questi giorni la notizia di provvedimenti che di fatto ostacolerebbero l'istituto del gratuito patrocinio, cioè, in parole povere, il diritto alla difesa per chi non può pagarsela.
Mi lascio trasportare da alcune associazioni di idee e così esco un pochino fuori tema e affronto solo di striscio l'argomento del quale volevo parlare in questa nota. Mentre mi accingo a commentare il comunicato al quale ho appena messo il link, infatti, mi vengono in mente tante figure belle della nostra zona; figure di avvocati dei poveri, degli emarginati, delle vittime di "giustizia" per ragioni politiche.
Senza scomodare i grandi personaggi come Pietro Gori, penso, per esempio, a tempi più recenti e a un avvocato come Giovanni Sorbi, che quando, giovane studentessa, sono venuta ad abitare a Pisa, era conosciuto da tutti come una persona generosa, capace di prodigarsi per chi non poteva permettersi una difesa.
Per quanto mi sia data da fare non sono riuscita a trovare in rete una foto di Giovanni Sorbi, così ne metto un'altra di Pietro Gori, meno nota e più gioiosa della precedente.
C'è una scena impressa nella mia memoria. Stavo andando al cinema, al Nuovo e c'era un capannello di persone a pochi metri. Così mi avvicinai e vidi che c'era, affisso, il manifesto che annunciava la morte di Giovanni Sorbi e loro stavano li, fermi e in silenzio. E' un'immagine vivida e talmente irreale, nella sua bellezza, che mi viene il dubbio di essermela sognata.
La sua figura viene ricordata anche ne "Il sovversivo", il bel libro di Corrado Stajano" dedicato a Franco Serantini. Volle presenziare all'autopsia di quel ragazzo, che aveva conosciuto da vivo, e ne uscì sconvolto, dichiarando, contro il referto ufficiale, di avere visto soltanto un corpo devastato dai colpi ricevuti.
Pensieri in libertà (almeno quelli), me ne rendo conto. E' che così, di festa, avendo dormito poco, con una pioggia sottile che spinge a restare in casa, viene un po' di malinconia a pensare a come piano piano si continui a cambiare e non in meglio.
Naturalmente e dopo il caffè, un po' di musica, un po' di fusa di gatti, forse un bel film al cinema nello spettacolo serale, si ricomincerà a pensare con grinta gioiosa. Ma ora le gocce di pioggia sottile rigano i vetri della finestra e rendono estraneo e lontano il mondo là fuori.
L'indimenticabile Sibilla amava molto guardare i vetri rigati dalla pioggia. Credo che i gatti concepiscano proprio in tale circostanza i propri pensieri filosofici più profondi.
E il discorso vale anche per Margot: eccola in una foto scattata un minuto fa.
Quando si avvicina il Natale molte persone si sentono
più sole e più tristi in tutto quello sfavillio di luci e colori, di musiche
allegre, di pacchi dono e di mercatini, di dolciumi e cibi succulenti.
Moltissime delle altre, invece, diventano più cattive e aggressive. Basta
andare al supermercato, per accorgersene, o immergersi nel traffico urbano.
Sembra un paradosso e comunque tale dovrebbe apparire ai credenti, ma anche, e forse di
più, a quelli che non lo sono e si mostrano prigionieri del vortice consumistico che trasfigura il senso di questa ricorrenza. Invece, in questi giorni, la maggior parte delle persone alla guida ti ucciderebbero sulle strisce pedonali pur di arrivare un minuto prima a
comprare i doni, testimonianza obbligata della loro bontà natalizia.
Ho deciso di passarla in casa, questa vigilia. Domani, da
mio padre, saremo un certo numero di persone, destinato ad aumentare per cena, e il giorno prima come ogni anno ciascuno di noi prepara qualcosa. Così predispongo l’occorrente per la
pasta al forno e con il computer vicino, per guardare uno sceneggiato a puntate
di quelli vecchi e ben realizzati (Maigret, questa volta), comincio ad affaccendarmi attorno ai fornelli.
Per me che non sono credente ci vuole un motivo per
festeggiare il Natale e così, di anno in anno, mi dico che per esempio è un
modo di gioire per la vita attraverso il ricordo di una nascita e quindi di
ogni nascita; oppure, alternando, che in fondo, essendo una tradizione così condivisa, sarebbesnob dissociarsi. La verità, però, è che il
Natale è il giorno in cui festeggiamo il ricordo di tutti i precedenti Natali e
soprattutto di quelli dell’infanzia e dunque è un po' come una specie di ripasso della lezione per il giorno dopo. Domani, infatti, da mio padre faremo musica, chiasso e giocheremo tutto il pomeriggio e dopo cena. Come molte altre volte.
Le due foto di mio padre sono dello scorso Natale.
Mio padre suonerà la fisarmonica e poi l'armonica a bocca, che sono il sottofondo sonoro di molti ricordi della nostra famiglia. Qualcuno suonerà altri strumenti e chi non suonerà canterà.
Quello con il grembiule celeste è mio figlio, l'altro è mio nipote Francesco, di poco più grande, e tutti e due sono in ascolto del nonno. Un po' di anni fa.
La vigilia di Natale tanti frammenti di passato si fanno strada tra i pensieri e arrivano alla luce scomposti e senza preavviso, come del resto è naturale che accada, dato il disordine analogico della nostra psiche.
Mentre mi infilo la pettorina del grembiule per cucinare e con gesti automatici lo allaccio e faccio il fiocco avverto già, nitido come se fosse qui e ora e non il frutto di un
ricordo, il rumore dei rebbi della forchetta, di molte forchette, nel battere
le uova e rinnovare quella specie di miracolo, che ancora oggi mi affascina,
degli albumi che da materia trasparente, semiliquida e viscida si trasformano
in soffice neve bianca. Le nonne, la mamma e quel chiacchierare fitto fitto di donne con i loro segreti,
quelle risate per la gioia della preparazione, sono ancora vive dentro di me
mentre a mia volta maneggio la farina per la besciamella o monto le chiare
delle uova per rendere soffice il ripieno dello sformato.
Metto dentro al forno
la teglia con la pasta pallida sapendo che dopo un po’ ne usciranno lasagne dorate e
croccanti come si conviene; e devo confessare che ogni volta, assistere a questa trasformazione, mi mette
allegria e mi sembra di essere depositaria di chissà quale segreto per esserne stata l'autrice.
I Natali con mio figlio piccolo si confondono nella mente con quelli dei miei fratellini piccoli o di me stessa piccola.
Ricordo l'emozione di alcuni regali, il cuore che batteva forte, la bambola quasi più grande di me, i barattoloni cilindrici dei mattoncini Lego, il primo mappamondo...
Forse ero un po' fissata con i mappamondi...
Sembra incredibile, pensando ai bambini di oggi, che ci si potesse entusiasmare per un oggetto del genere; eppure rivedo ancora mia sorella, più piccola di me di tre anni, mentre gridava al mondo, entusiasta, che babbo Natale ci aveva portato "il pallone di scuola".
A questi ricordi si sovrappongono quelli di mio figlio piccolo di fronte al grande abete che gli preparava il padre che ancora lo predispone e sotto il quale beviamo insieme il caffè e ci scambiamo gli auguri e i regali la mattina di Natale, prima di dividerci per dedicarci ognuno alla propria famiglia.
Il caffé sotto la sequoia di Natale 2011
Quando ancora vivevamo insieme io, per scherzo, chiamavo quell'enorme abete "la sequoia di Natale".
Ecco; ho sfornato la teglia delle lasagne e già sono proiettata sul calcolo di come sistemare tutto in macchina, domani, in modo che non si verifichino disastri. Perché il contenitore rovesciato delle cipolline in agro-dolce è ormai diventato un film cult della mente dopo che è rimasta, per mesi, una scia olfattiva indelebile nell'abitacolo.
C’è silenzio, ora, nella casa. La cucina è di nuovo ordinata e
posso andare di là, cioè venire di qua, dove ora mi trovo, con i miei due gatti; posso mettere una musica, semisdraiarmi sul divano a scrivere questa piccola nota con il computer sulle gambe e Margot che ne vorrebbe prendere il posto; e poi, con un libro, aspettare il sonno come se fosse una sera casalinga qualsiasi anche se è la vigilia di Natale.
Per lasciarmi andare all'utilissimo inutile e venire a patti con il silenzio scelgo un po' di Fado, una musica che amo e che racconta proprio il nodo inestricabile tra la malinconia e la gioia. L'ascolterò nella versione moderna dei Madredeus, in particolare l'album "Ainda", al quale sono legata. E' la colonna sonora di un bel film di Wim Wenders e parla di una città che amo, cioè Lisbona.