Il caco davanti alla casa. Non la prima, ma quella in cui i miei hanno vissuto di più. |
Ogni
anno, ai primi di novembre, il caco davanti alla casa di mio padre esplode in
una bellezza indicibile di colori. Succede sempre che dopo la visita al
cimitero tutti ci fermiamo a guardarlo e a commentarlo come se fosse la prima
volta. Così è capitato ieri. E’ il richiamo irresistibile della vita che continua, della gioia di
poter godere dei suoi doni.
Visitare il cimitero del piccolo paese nel quale si è cresciuti non è la stessa cosa che visitarne uno di città. E’ una comunità talmente piccola che io, quei morti, li conosco tutti. Personalmente alcuni, indirettamente altri, attraverso i racconti e a volte i racconti dei racconti.
Lungo la strada che porta al cimitero del mio paese. |
E infatti la visita non riguarda solo i propri cari, ma è anche una specie di passeggiata, una rassegna del dispiacere o della malinconia: sopra, sotto, nella parte rialzata e in quella più bassa e da vicino e da lontano, si riconosce il posto di ciascuno. Tra le lapidi più antiche c’è n’è una, sotto, in cui due genitori disperati hanno scritto una ninna nanna per il loro piccolo. Avrai freddo qui da solo, o paura del buio. Piangono, le parole accorate incise sul marmo inerte. E ci raccontano di loro che avrebbero voluto andare presto con quel bambino e cantargli ancora e cullarlo, per farlo addormentare al caldo e al sicuro.
Ogni volta una
malinconia grande grande mi stringe come in una morsa e così è stato
ieri guardando la foto di mia madre e quella scritta che vi abbiamo fatto
apporre sotto, un po’ nascosta dai fiori, sulla quale ci siamo trovati d’accordo tra chi di noi
figli è credente e chi no e nel desiderio anche di rispettare lei, che lo era: “L’amore non avrà mai fine”. E' tratta da una delle Lettere ai Corinzi di Paolo, e abbiamo discusso sulla
traduzione, nello sceglierla, perché da tanti anni quella parola, “amore”,
nella liturgia veniva e viene tradotta come “carità”. Amore e carità, però, non sono
esattamente la stessa cosa. Poi ci sono tutti gli altri, nonni, zii, genitori
di amici che mi accoglievano nelle loro case per la merenda o anche per dormire,
quasi fossi un’altra figlia. E poi c’è una delle mie due amiche, le più care, che
morirono insieme, a poco più di venti anni, in un incidente assurdo come lo
sono del resto quasi sempre gli incidenti. Avevo il cuore gonfio.
C'era la scuola elementare, al di là del muro, in alto, ed è stata anche la mia. Ora ci sono calcinacci e rovi. I bambini vanno altrove, con un autobus. Le chiamano "razionalizzazioni". |
A mio figlio
raccontavo per strada, nella passeggiata del ritorno, alcune storie di persone
le cui foto lo avevano colpito. Guarda...questa, quella. Diceva lui quando eravamo ancora nel piccolo cimitero. Shhhhh. Rispondevo
io. Ti racconto dopo. E lui insisteva con il ma perché dopo. E io allora a dire
che sarebbe stato come spettegolare, farlo lì. Ma lui è nato in città e non può
capire.
Poi, arrivata a casa di mio padre, ho trovato gli altri che erano ritornati in auto già sotto il caco a commentarne la bellezza e così anch’io mi sono
messa a guardare quelle foglie rosse e oro e a fotografarle e il cuore si è aperto di nuovo.
La
sera ho fatto in tempo ad andare al cinema, a corsa perché era tardi,
trafelata. Il film di per sé era bello, ma forse non mi ha entusiasmato. Però stare lì
seduta, sia pure da sola, mi ha fatto di nuovo percepire in una maniera diversa
da quella delle foglie del caco di mio padre, ma ugualmente intensa, che la mia
voglia di vivere è più forte di tutto, di ogni delusione o sconfitta e persino
del tetro oscurantismo egoista che in quest’epoca ci fa da cornice.
Quando si entra in un cimitero è come se tutto si fermasse. Il mondo delle automobili, che usualmente ci invade l'anima, scompare. E cominciamo a leggere le scritte sulle tombe, i nomi, le date, guardiamo le fotografie di individui sorridenti, impettiti, alteri, a volte timidi, seri, più cupi. Uscendo diamo un'occhiata a un cipresso, magari se il vento lo agita, e le automobili intorno, di nuovo, e come un'attesa, un sapere che presto sarà tutto finito.
RispondiEliminaPrometeo donò agli uomini l'oblio, prima delle tecniche e persino del fuoco. Eschilo, nel "Prometeo incatenato", vi si riferisce come alla speranza che non vede, intesa come la capacità umana di vivere come se non si dovesse morire. Bisogna scordarsi l'ineluttabilità della morte per poter dotare di senso l'esistenza, pensandoci come un anello di una catena di generazioni e mantenendo viva come possiamo la memoria di quelli che ci hanno preceduto per regalarla a quelli che verranno dopo di noi. E' anche un po' il senso di quella frase che con i miei fratelli e nostro padre abbiamo scelto per la mamma: gli affetti e l'amore non finiscono quando termina la nostra vita...
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